domenica, maggio 17, 2015

Fare


Ho sempre disegnato e ho sempre pensato che sarebbe stato bello disegnare il più possibile nel corso della mia vita, fin da quando ho memoria. Ma davvero, non ci credevo nemmeno lontanamente che potesse diventare il mio lavoro. Pensavo fosse un qualcosa che mi avrebbe fatto compagnia, qualcosa di cui essere fiero, ma la possibilità di poterci guadagnare qualcosa  e che qualcuno aldilà degli amici si potesse interessare ai miei disegni non mi sfiorava nemmeno. 
L'ho già detto altre volte: la spinta principale a provarci me l'ha data lo schifo totale che provavo per gli altri lavori che ho fatto per mantenermi e l'idea che proprio non la volevo passare la vita ad assaporare giorno dopo giorno un altro boccone di quello schifo.
Lo so. Non è colpa di nessuno, è solo colpa mia. Sono sempre stato debole in questo senso. Sono sempre stato portato a pensare che sia quello che fai che ti determina: é parte della mia cultura. 
Non mi piacevano i meccanismi di quella giostra, il dovermi adattare al gioco maschio della competizione tra colleghi (anche in ambienti di lavoro dominati dalle donne) il doversi arroccare mimetici dietro posizioni posticce per ottenere poi le briciole dai clienti, il lisciarsi le piume per sembrare più appetibili ai superiori, nascondendo invece coliti, gonorree e calvizie. Non ne ero capace. Non ne vedevo le ragioni.
Per questo motivo ci ho provato a diventare altro e forse per questo ho fatto il possibile per riuscirci.
Perché ho sempre pensato: "esisterà qualcosa che posso fare in cui il mio successo sul lavoro non viene determinato dalle mie strategie sociali, (visto che sono un potenziale sociopatico) ma solo dalla qualità di quello che faccio?"
Il livello "zero" in un certo senso.

Dopo circa una dozzina di anni dall'inizio ufficiale della professione, mi avvicino pericolosamente ai 40 e la mia posizione al riguardo è sempre la stessa: la penso sempre così.
Quello che conta è quello che produco, e le modalità il più possibile "diligenti" con cui conduco il periodo di preparazione del lavoro prima di consegnarlo. Nient'altro. 
Alcune cose sono cambiate, ma sempre e comunque per la maggiore sicurezza che ho acquisito relativamente ai mezzi "artistici" e non a quelli sociali. Credo per preservare l'unica "esclusività" che secondo me esiste nel disegno e nell'attività artistica, che non ha a che fare con l'ingegno, lo sforzo dell'invenzione o tutto l'intangibile, ma solo con il fatto che per "produrre", devo confrontarmi (alla fine) solo con me stesso.

Soprattutto per questo, non me ne esco quando osservo alcuni dei miei colleghi che pensano che siano invece le altre persone dell'ambiente a determinare quello che riesci a mostrare di te stesso. Che in base a come decidi di comportarti con datori di lavoro e colleghi, cambi la tua visibilità o il tuo successo. 
Magari è vero e forse questo è il motivo per cui non diventerò mai ricco, ma lo stesso non ne esco dallo sbalordirmi ogni volta davanti a questa visione. Non capisco come tutto ciò che ho sempre detestato delle consuetudini a me note nel mondo del lavoro "non artistico" a volte entri anche nel nostro, di mondo. 

Non riesco ad adattarmi all'idea di chi pensa che le cene coi pezzi grossi, le riunioni esclusive, gli aperitivi,  i matrimoni e gli eventi in generale del nostro ambiente, siano più importanti dello studio, della palestra sui fogli, della concentrazione data dalla totale solitudine. 
Tutte le volte che mi sono costretto a partecipare a queste situazioni per un motivo che non fosse quello di strafogarmi o incontrare gli amici che durante l'anno non riesco ad vedere di persona, me ne sono sempre pentito. Se mi dite invece che è questo ciò che conta, fallirò e prima o poi mi accorgerò di essermi isolato dal mondo con la mia stessa spocchia: ne sono certo. Non sono stato abbastanza simpatico e sagace con le persone giuste. Non le ho portate a credere che fossi qualcosa di più di un semplice disegnatore.

Non capisco poi l'invidia mortale nei confronti del lavoro di un collega: di uno più bravo di te. Quella spinta viscerale che ti porta a impiegare il tuo tempo a immaginare  come fare per distruggerlo, ostracizzarlo o screditarlo perché lo vedi come il nemico ultimo da sconfiggere, invece di sedertici accanto e prenderlo come stimolo per spingerti un po' più in là. Ringraziandolo addirittura. Facendo per un volta lo sforzo  di considerare che il modo in cui lo fai tu, non sia "l'unico modo possibile". 
Siamo in pochi a fare questo lavoro e nel bene o nel male, ci si conosce tutti. Lo spazio che ognuno merita gli viene assegnato se ha talento e se è un persona ragionevole: non c'è nessun motivo di sgomitare sulle spalle degli altri. 
Invidia, gelosia sono poi paragonabili alle manie di persecuzione, al vedere complotti occulti di persone che fanno in modo che tu non possa lavorare. Anche qui e ancora una volta, perché preoccuparsi di qualcosa che non ha  a che fare con il piano "reale" della tua attività, se sei corretto e lavori bene?

Non capisco chi invece ha dei collaboratori di grande talento, degli allievi magari (nel caso si sia disegnatori e c'è qualcuno che ci dà una mano),  che potrebbero lavorare in totale autonomia visto il miracolo che hanno nelle mani vostro malgrado, ma che vengono trattenuti nell'ombra a vita, malpagati,  perché convinti con l'inganno che non sono ancora pronti per entrare nella macchina produttiva "vera". Che devono fare trentacinque anni di gavetta, che il mondo la fuori è pieno di lupi affamati. Tutto questo semplicemente perché temono possano essere potenziali "ladri" della altrui visibilità, o perché forti di quello che hanno imparato standogli accanto, li possano oltrepassare. 
Cosa paragonabile al caso in cui si tratti di collaborazione tra nuovi disegnatori di talento ed editori minori o mecenati improvvisati che li hanno accalappiati, dove il timore che il collaboratore bravo veloce ed economico, sfugga al loro controllo, li porta a mettere in gioco qualunque nefandezza umana e contrattuale. Il mercato è vasto, giovani amici alle prime armi e l'Italia, oggi, non è l'unico mercato che il vostro lavoro può raggiungere: per ogni datore di lavoro malandrino, ne esistono altri dieci di accettabili, con cui crescere senza un senso di morte sulle spalle.

Non capisco poi quelli che invece serbano i segreti del proprio lavoro come se fossero le fondamenta di ogni loro certezza. Che se qualcun' altro usasse la loro stessa tecnica, i cosiddetti "trucchi del mestiere" il loro lavoro non varrebbe più niente. Allo stesso modo in cui probabilmente, alcuni di noi pensano come gli Indios in Amazzonia,  che se ti fanno una fotografia, ti rubano l'anima. Magari la cosa può avere un senso se si parla di "contenuti",  nel caso in cui si sia autori, se qualcuno cioè ti ruba l'idea per una storia. Ma se si parla di tecnica o di stile, il discorso non sta in piedi. Io credo che se raggiungi un qualche traguardo tecnico che porti aria nuova nel settore, la cosa giusta da pensare è che anche altri lo condividano, affinchè tutto il tuo giro ne tragga vantaggio. E non parlo di produrre tante copie di quello che sei.
In questo settore ( ma in generale in ogni ambito artistico) non ha senso essere la copia di qualcun altro. Come non ha senso, rimanere sempre uguali a se' stessi. La tecnica è lo stile sono veicoli, sono accessori. Non possono e non devono essere il centro di tutto, ma solo un modo con cui percorrere il nostro tempo e renderlo più interessante.

Allo stesso modo in cui parlo di tecnica e di reiterazioni varie, non capisco quelli che pensano che un lavoro, per essere fatto bene, debba essere uguale a quello di tutti gli altri colleghi che lavorano per quella testata, o in generale per quella casa editrice. Quelli che cioè studiano in modo "mimetico" i disegni di chi lavora già, perché la matematica di una testata si risolve tutta nella reiterazione degli stessi schemi visivi. Dal mio punto di vista, confondono l'approccio artistico, con quello impiegatizio e non c'è errore più grande. Anzi:  se esiste un errore potenzialmente ancora più grande di questo, è quello di considerare l'ultimo traguardo del proprio percorso, quello di lavorare  per una grossa casa editrice pensando che da quell'altura non si potrà più scendere. Una delle cose che fino ad ora mi ha sempre salvato dall'avere delusioni ( o più in generale dal rimanere senza nulla da fare da un giorno all'altro) è purtroppo una delle prime cose che ho imparato nei miei lavori di merda precedenti e cioè che anche se tutto sembrerebbe dire il contrario, alla fine a nessuno gliene frega niente di te. Soprattutto se quello che fai è uguale a quello che fanno anche gli altri. Con l'unica differenza che la cosiddetta "libertà" che rende così speciale il nostro mestiere, ti può permettere di guardarti attorno per cercare qualcos'altro in cui collocare "il tuo modo" in qualsiasi momento e senza nessun reale vincolo di esclusività. Portare invece qualcosa di innovativo o che si è visto funzionare su altri mercati e con altre realtà editoriali , presso la casa editrice dei vostri sogni, renderà molto più sensato e appagante il vostro lavoro, una volta "acquistati".

E nell'impossibilità di capire queste cose che io vedo il mio fallimento come potenziale imprenditore di me stesso, ma credo che l'unica cosa che mi impedisca di investire in questo senso sia una punta di orgoglio nell'affermarlo. Ho sempre visto il lato esteriore di quello che faccio, ciò che avviene quando un mio lavoro viene pubblicato, come non totalmente dipendente dalla mia volontà.  Un qualcosa che non è possibile racchiudere dentro un calcolo, una pianificazione a priori. Allo stesso modo in cui, se vincessi otto milioni di euro alla lotteria, non sarei probabilmente un disegnatore migliore, penso che il fatto di ottenere e mantenere delle posizioni di rilievo agendo in malafede nei confronti degli altri che operano nel settore ( o magari anche non in malafede, ma ottenendo quelle posizioni con la strategia, il calcolo e l'astuzia e non con il talento) non cambierebbe di una virgola la qualità di quello che faccio.
Quello che ho ottenuto avendo questi come princìpi, è stato riuscire quasi sempre a lavorare su cose che mi piacevano davvero, facendo pochi compromessi, o facendo compromessi assolutamente non nocivi per quello che volevo mostrare del mio modo di operare.
E' un valore? Più probabile sia una giustificazione che darò a me stesso nel caso in cui dovessi cadere: se non riuscissi più a fare nulla. 
Il pensiero di essere partecipe di una qualche forma di etica, di qualunque natura essa sia,  mi appare sempre un'astrazione  che non ha a che fare con la realtà delle cose. 

Tra tante astrazioni di cui dubitare, mi sembra però quella di cui posso essere meno scettico.

sabato, febbraio 01, 2014

la macina e il disegnatore.

"Sono qui" disse.

Io ero accucciato dietro un masso scuro, dove mi pareva di aver visto sgattaiolare delle cimici succuse. Avevo fame e forse quello era cibo. L'arancione e il verde, sono i colori di qualcosa di commestibile, pensai.

"Sono qui" disse di nuovo.

Le cimici, hanno un sapore simile a quello del limone, credetti di sapere. Con le unghie scavavo sotto il masso, e per un attimo ebbi la certezza di averne toccata una.  I limoni cadono nei giardini a Sorrento e sono grossi come cedri, dei cedri succosi  e grossi, come le cimici.

"Allora, mi ascolti per un momento?" chiese

Qualcosa di simile ad una radice mi si infilò tra le dita, solleticandole come un piccolo serpente legnoso. Le radici non si muovono da sole, pensai. Le radici stanno ferme o almeno non si agitano di vita propria. Le radici hanno il sapore degli anni, dei secoli, ma in quel momento già avevano già smesso di fare il solletico, e stringevano.

"tu mi hai invocato e ora sono qui" disse.

Puntai i piedi sulla roccia scura per cercare di divincolarmi in qualche modo. Entrambe le braccia erano bloccate e sentivo un liquido caldo uscire da sotto le unghie. - Poco fa ho bestemmiato - pensai, l'ho fatto come se non lo facessi da anni, come si fa quando si cade sul pendio di ferro delle montagne russe col vento sulla faccia, come quando ci si rende conto di aver perso tutto mentre si era occupati a fare dell'altro. Vidi allora che il masso scuro era una macina, una grossa macina per il grano. Che attorno a me c'erano le macerie di una casa, le costole del tetto, i mattoni del solaio caduti a terra come tanti denti marci. Le radici da sotto la macina mi avevano già sfilato parte  della pelle del polso sinistro e cominciavano a risalire, golose forse delle ossa del gomito, così irregolari e incomprensibili, per questo forse più attraenti. 



"Cosa volevi dirmi?" chiese.

Io risposi che volevo risparmiasse il mio braccio destro, quello mi serviva, mi serviva parecchio anche se non ricordavo a cosa. A pensarci bene, anche le gambe se le sarebbe potuto prendere, se era a lui che dovevo dirlo, se era lui quello che mi tratteneva sotto la macina. Ma non sapevo niente, sapevo solo che mi serviva il braccio.

"A cosa serve un corpo a cui è rimasto solo un braccio?"chiese di nuovo

Pensai di rispondere che servisse a qualcosa di importante, di dare la risposta giusta ammesso che avrebbe avuto un senso. Che se avessi risposto che mi serviva per fare del bene, agli altri, forse mi avrebbe lasciato andare  e forse mi avrebbe fatto mangiare quelle cimici grasse che frinivano da settimane nei miei pensieri. Ma non mi veniva in mente nulla. Forse il braccio mi serviva per bere, per sollevare spesso dei bicchieri colmi di vino. Ma pensai che quello si poteva fare anche senza, magari organizzandosi con le cannucce. Nel granaio c'erano delle bottiglie verdi, vuote. E una damigiana piena di biglie che anche quella non era utile a nessuno, forse come me. 

"Un corpo è una dimora difficile da abitare, una distrazione può farla crollare"secco disse.

E' una dimora, giusto. Fu allora che vidi un tavolo, pensai che non era apparecchiato e che forse non serviva per mangiarci. Era un tavolo storto, dove chiunque ci avesse appoggiato forchetta e coltelli, li avrebbe visti scivolare a terra, incapaci di sottrarsi alla gravità. Un tavolo inutile su cui non avrei potuto sgranocchiare i miei insetti preferiti educatamente. Dove non avrei potuto mangiare con l'unico braccio rimasto.

"Cerca di ricordare, che la vita è breve" ironizzò.

Dissi che facevo il disegnatore, che il braccio mi serviva per disegnare e solo allora le radici lasciarono la presa. Mi allontanai dalla macina e cercai di rimanere in piedi. Adesso era tutto lì quello che rimaneva del mio pasto, io che ero divenuto pasto a mia volta. Avevo detto che facevo il disegnatore, ma di certo non lo ero. Dovevo essere un prete, per essere così ben predisposto alle conversazioni improbabili. Ma in quel caso non si spiegava la necessità delle braccia, o meglio del braccio. Un giocatore di scacchi. Un operaio specializzato. Ero certo di non essere un musicista perché la musica era una cosa per cui è necessario essere vicini alle stelle, io invece stavo accanto alla macina, contenuta nello stomaco di un cadavere edile.




"Ora mi devi parlare di quello che ti ha portato a disegnare. Sono qui"

La domanda alla fine è dunque questa qui. Delle cimici non se ne parlava più (forse non se ne era mai parlato) e quindi cominciai a raccogliere le pietre, che una volta, prima di diventare le tessere scomposte di un mosaico, dovevano permettere a qualcuno di sentirsi al sicuro, in un luogo che gli appartenesse. Le spinsi vicino al tavolo, convinto che l'inclinazione del piano andasse corretta. Dissi che avevo mentito, che ero un disegnatore e che avevo bestemmiato la mia esistenza così straordinariamente lontana da quella delle persone civili. Vidi che sul tavolo c'erano fogli neri, su cui qualcuno aveva sputato, forse io. Avrei voluto essere  una bocca in quel momento per avere anche un debole ricordo del sapore della saliva, della vita.



"qual'è la ragione, dunque?"

Vidi gli anni passati per un momento. Mi resi conto che se esisteva un motivo per cui disegnavo era per vendicarmi: l'unica vendetta che mi potevo permettere da seduto dietro un tavolo storto. Al riparo, in una casa con delle biglie nascoste in una damigiana.
Avevate visto tutti quello che sapevo fare nascosto lì dietro, avevate riso, pianto o applaudito, o insultato nel più completo silenzio, nella massima distanza possibile. La distanza era quella giusta, lontani da tutto ciò che mi aveva costituito, che mi aveva preceduto e che aveva fatto sì che mi trovassi così lontano da voi, pur essendo lì davanti ai vostri occhi.
La vendetta, per aver sopportato  di osservare le vostre vite, per essere obbligato a confrontarle con la mia e farne un involto osceno su di una bilancia, come unico modo per restituirvela. Una bilancia che pendeva sempre dalla mia parte come il piano inclinato di un tavolo storto.
Osservare, giudicare, migliorare e restituire. 
Come la macina migliora il grano per creare la farina. 

"Stai mentendo ancora"

Non avrei dovuto essere lì. Sto mentendo è vero. Come sempre.
- Nel secolo dei bugiardi, un bugiardo in più o in meno, non fa differenza -  mi sono sempre detto. Qualcuno me l'aveva insegnato il disegno, tanto tempo fa, senza una ragione e questa tra le tante cose era diventata la più importante. Tra la tante cose che erano trascorse, quella era rimasta lì. Levigata dalle correnti silenziose degli anni fino a diventare una pietra resistente più di tutte le altre. 
Come nella mia Kaaba personale, la mia pietra nera, la mia macina. 
E ogni volta lo dimentico e lo ricordo ancora, allo stesso modo in cui cado e mi risollevo.

"ora me ne vado, mi stai annoiando. Tutte le volte mi annoio a parlare con te" disse. "ma è una  noia buona, familiare che mi farà essere qui anche la prossima volta" concluse.

Aveva ragione. La noia, la reiterazione, forse nella nostra conversazione, nel nostro rapporto, avevano un valore assoluto, essenziale. Questa era la risposta.
Una noia buona, che non scava dentro corrodendo, ma  che acquieta.
Io che ripetevo gli stessi gesti da sempre, la casa che cadeva come a ricordarmi che era lì, come se volesse simulare una vita, dotata di movimento.

E fu così che lasciò la casa con me che non mi ero sfamato, e tutti  quei cocci da sistemare. 
Una casa da ricostruire. 
L'avevo demolita io quella casa, o forse c'era stata la guerra, non lo so.
Forse ero un soldato, o forse un vigliacco, un disertore in cerca di cibo e riparo. 
Uno dei tanti che cerca conforto in cose banali, abituali, ma che alla fine quel conforto non lo trova mai.
Una casa da ricostruire assieme alle abitudini destinate ad abitarla.


"La macina può essere utile anche per fare dei mattoni" pensai. 

mercoledì, dicembre 25, 2013

fase 04: Accorgersi che Natale è il momento migliore per alludere.

Ricordo che undici anni fa a Natale,  scrissi una lunga lettera, dove spiegavo, non senza una certa foga giovanile, che per la prima volta, non mi sentivo di fare bilanci di cose positive o negative accadute durante l'anno che era appena trascorso, perché nonostante tutto, quello che mi era successo oltre che necessario, era bellissimo, anche se chi aveva testimoniato il mio percorso fino ad allora, sarebbe sicuramente stato pronto a giurare il contrario. Scrissi che non desideravo nulla perché tutto ciò che c'era, comunque mi apparteneva ed era "mio" più che mai. 
Questa lettera era indirizzata ad una persona che conoscevo da poco. Mi stupii del fatto di aver scritto una cosa simile a qualcuno, pur non essendo un disseminatore di buon umore cattolico o in ogni caso totalmente ubriaco. 
Qualcosa era cambiato, e la voglia di condividere questi pensieri con lei, mi diede la conferma di trovarmi in uno stato di grazia particolare, dovuto all'averla incontrata e all'aver cominciato a vedere il mondo,  per la prima volta.
Fu in effetti una lettera importante, dove coloro che scrissero e che lessero, presero (forse inconsapevolmente) la decisione di fare subito dopo,  un po' di vita insieme. Si apriva un varco, con  una strada facile da percorrere, dopo anni di labirinti stronzi e incomprensibili.

Undici anni dopo è ancora tempo di bilanci. Facebook raccoglie la spazzatura emotiva di chiunque, e le lettere probabilmente, le scrivono solo i notai e i calligrafi. A pensarci bene, a volte le scrivono anche i medici.
Quello che è cambiato rispetto ad allora, è che non c'è più un confine netto tra ciò che si "desidera" e ciò che "si ha il dovere" di fare. E' cambiato anche l'aspetto  della strada facile, che è sempre da privilegiare rispetto a tutte le altre, ma che a vederla bene è sempre stata il "nostro" personalissimo labirinto con cui radicalizzarsi o illanguidirsi, a seconda delle necessità. 
E' cambiato il modo di pensare e leggere ciò che poi scrivo, me ne accorgo anche e soprattutto riguardando le prime righe di questo pezzo. Non vedo più la necessità di girare attorno a qualcosa utilizzando delle metafore per non parlare della cosa stessa: mi infastidisce continuare a usarle, per poi chiuderlo questo pezzo. 
Nonostante questo, non cambia la mia volontà di stare dove sono, convinto molto più di quando ho cominciato, di aver preso la strada giusta. 
E se all'inizio avevo paura, ma mi faceva piacere pensare il contrario, adesso che conosco una paura più grande, vedendo che non ho alcun potere per comprenderla e dominarla, mi illudo che con un avversario così forte, ci puoi anche convivere, sentendoti tutto sommato più vivo di quando si era estranei. Una paura che terrà legati stretti, coloro che scrissero e lessero undici anni fa.

Non so se e in che modalità, proseguirò con le frequentazioni "social" ora che ho così tanto tempo da impiegare bene. Non vedo il motivo di continuare a suggerire a tutti di seguire quello che faccio, o di cercare di sembrare acuto o intelligente, visto che probabilmente quello che faccio, dovrebbe in un certo senso bastare a rappresentarmi. Che non ho il potere di cambiare l'opinione di chi ha già deciso che sono uno spocchioso o un incapace, come di chi pensa il contrario. In realtà, non vorrei che ciò che sembrano essere delle scuse per un'eventuale assenza, diventino esattamente questo.
Per ciò a chi legge, chiedo di dimenticare questo messaggio, allo stesso modo in cui si fa con una qualsiasi delle cazzate tremende che bofonchia un amico intrippato a fine serata.
Che magari poi, quella cazzata ti torna in mente qualche anno dopo, quando è il momento giusto per riderci sopra.


Alla tua salute, vita. Vediamo che altro hai da dirci.

giovedì, novembre 07, 2013

The day i tried to live


I woke the same as any other day you know why 
I should have stayed in bed 

giovedì, settembre 26, 2013

martedì, settembre 24, 2013

domenica, settembre 22, 2013

fase 03: Sbagliare nel modo giusto.


E' arrivato il momento di disegnare. Si tratta di  una storia intera di novantaquattro pagine. Sono davvero parecchie.
La cosa mi terrorizza, ma come sempre comincio a farlo, per illudermi che sarò anche questa volta in grado di affrontare questa paura, ormai così familiare.
In realtà la fase più significativa della preparazione delle tavole, è quella degli schizzi che fai in cinque minuti, dove di solito si trova già tutto il senso di quello che poi verrà stampato alla fine, sul libro. Con l'unica differenza che alla fine sarà più comprensibile e gradevole agli occhi del lettore (cosa che forse non sarà questa lunga riflessione sul "disegno" che sto per fare...).

Gli schizzi in questa fase sono di solito pieni di segni, che nella fase successiva andrebbero scartati: nel "clean-up" della pagina, sia esso costituito dall'inchiostrazione o dal passaggio alla matita pulita o altro. Nel passaggio alla fase della riproducibilità, per intenderci.
Per quanto mi riguarda, tutti quei segni sbagliati, sono sempre stati i più interessanti, per me. Non lo so il motivo, ma forse perchè non li riconosco in quanto miei.
Credo che il mio modo di lavorare sia divenuto almeno per me" riconoscibile", quando ho confessato a me stesso che gran parte di ciò che mi riusciva meglio, partiva da singoli segni o da interi disegni per così dire"sbagliati".
Messa così, sembra complicata, me ne rendo conto.


Se c'è una cosa che nessuno ti insegna nelle scuole d'arte italiane, è che a volte è molto più utile studiare i propri errori che tenere conto dei propri successi. Tutta la parte delle tua vita in cui ti devi solo occupare di immagazzinare informazioni, e sperare che poi fermentino per bene per restituirti un idea di senso, un diagramma compiuto del modo in cui devi utilizzarle è forse la più interessante della tua esistenza di essere umano, intenzionato poi a consacrarsi "creativo". E' in quella fase che hai la possibilità di sapere chi sei.
Normalmente ti si dice di seguire delle regole. Tutti sono in grado di uniformarsi a delle regole utili per ottenere uno scopo, per essere riconoscibili dal contesto in cui si inseriscono.  Un tot persone possono essere istruite a comportarsi nello stesso modo, nel caso di un disegnatore, a disegnare nello stesso modo.
Ma quello che porta a farsi distinguere dalla strada precostituita è l'errore, la caduta; e più sarà rovinosa questa caduta, più sarà facile allontanarsi dal sentiero già battuto.
L'errore, è quello che ti consente di essere inconfondibile, perché ognuno di noi, di solito sbaglia in modo diverso dagli altri.

In ogni caso, tentiamo almeno stavolta di non sfociare nella filosofia spicciola.
Sei in una delle aule della tua scuola d'arte italiana, durante i tuoi inizi.
Ti dicono di copiare per l'ennesima volta, una delle riproduzioni in gesso dei "Prigioni" di Michelangelo.
Di solito c'è chi passa tutto il proprio tempo in questo sacro edificio a tentare di capire perché il tratteggio incrociato ha un effetto diverso dallo sfumato a toni sovrapposti.
C'è chi si chiede invece se Michelangelo, fosse veramente omosessuale.
C'è chi auspica che il supporto cartaceo sia quello che farà la differenza.
C'è chi è già ubriaco alle nove e mezza di mattina perché al bar ha dovuto corrompere un professore a suon di bianco frizzante per farsi passare un dispensa essenziale, ma introvabile.
C'è chi si interroga sul fatto che il disegno in bianco e nero possa essere sufficiente anche senza il colore o viceversa.
E' molto probabile, che nessuno tra loro sbaglierà nel modo giusto.
Perchè?

Perchè il contesto in cui si trovano ad operare, non ha la struttura simbolica adeguata a legittimare questo errore. Il sistema che sorregge un luogo dove ipoteticamente è necessario insegnare a diventare degli artisti o (umilmente) a diventare  "operatori" dell'arte, non si può autolegittimare per principio, e se lo facesse contraddirebbe se' stesso.
Probabilmente nel futuro cambierà, arriverà un qualcosa, un progetto innovativo, una visione originale portata avanti da un singolo o da un gruppo di illuminati. Una consapevolezza tale per cui tutto il sistema di nozioni intangibili, sfuggenti, anacronistiche e allo stesso tempo avveniristiche, su cui si sorregge il sistema dell'insegnamento, nelle scuole d'arte, verrano riorganizzate, in modo da fornire a chi vi accede un profilo di utilizzo comprensibile.
Per il momento, non si offre affatto "formazione".
Tutto ciò che viene offerto, salvo casi rari, è più "un'esperienza": una sorta di passeggiata all'interno del sistema, con la sensazione costante, che di tutto ciò che ti viene mostrato, si faccia il possibile per nascondertene il senso.


Io non voglio recriminare, ma ho passato un anno intero a seguire un corso di Storia dell'arte contemporanea in cui il docente (un luminare a detta di molti) ha trascorso tutte le sue venticinque lezioni circa a dire che " ... se esiste qualcosa che si può dire dell'arte, è la sua impossibilità di essere detta".
Senza una foto, senza una dispensa: nulla. Venticinque ore di lezione, così.
Alcuni, si iscrissero appositamente a questo corso dalle altre sezioni, da scultura, da decorazione, avendo sentito dire che durante le lezioni degli anni precedenti, non era raro che il pubblico sfociasse in applausi clamorosi e commossi. Io quell'anno, non ricordo nè applausi, nè clamore.
Ma senza entrare nell'aneddotica, basti sapere che questo genere di situazioni costituiva la regola, più che l'eccezione.
Tutto dovuto a cosa? Ad un fraintendimento di fondo, secondo il quale, a tutti dovrebbe essere permesso l'accesso a questi contenuti, ma nel momento in cui ci sei, i contenuti stessi ti vengono presentati come impossibili da raggiungere attraverso quel genere di tipologia apprendimento. Non sto scherzando. Ti dicono veramente questo.
E accade soprattutto quando ti appresti a creare qualcosa di tuo, cioè hai già superato la fase di apprendimento tecnico, nell'ipotesi che tu abbia avuta la fortuna di farla come si deve.
Ti infilano in un labirinto, dove essi stessi,  lavorano incessantemente sollevando nuove, altissime pareti, scavando passaggi segreti, immaginando nuove coordinate ed architetture dicendoti: "sicuramente non avrai modo di sapere dov'è l'uscita, perchè nemmeno noi sappiamo dov'è. Però se userai bene il tuo talento, nessuno ti impedirà di cercarla. Forse per raggiungerla devi tirar su un bel tramezzo di forati laggiù, oppure aiutare il tuo collega a demolire quella scala a chiocciola..."
E ai problemi, per così dire "contenutistici", si aggiungono quelli strutturali, dovuti al modo di gestire scuola e cultura da parte di chi sta al potere nel nostro Paese, che in nessun caso sono da sottovalutare.



Io non ho niente contro le scuole di fumetto, anche e soprattutto perchè non ne so praticamente nulla.
Io faccio una riflessione sulle scuole d'arte, perchè c'ho passato dieci anni della mia vita, inside.

Il novanta per cento delle persone che frequentano questi istituti (me compreso) quando escono con il diploma in mano fresco di stampa dalla segreteria dell'edificio, hanno tutti la stessa espressione spaesata, del tipo: "...e 'sti gran cazzi? Che ci faccio ora?".
Questo perché la maggioranza delle volte durante i quattro/cinque anni in cui si sta lì, si è lasciati soli, pretendendo che lo spirito dell'arte, si impossessi degli allievi allo stesso modo in cui può farlo un virus spontaneo, svaporato dai gessi e dai cavalletti, una volta collocati all'interno di queste strutture.
Gatto, un mio grande amico, forse l'unico che aveva capito come funzionavano le cose, appena dopo la discussione del diploma, salì sul ponte che sta davanti all'accademia e buttò la tesi, dritta nel canale.


Io penso che la vita sia breve, e che una delle cose più importanti per operare con intelligenza o buon senso durante il nostro percorso su questa terra, sia sapere chi siamo.
In questi luoghi, dal mio punto di vista, è veramente difficile scoprirlo.

Lo dico: secondo me per insegnare un mestiere in questo ambito, è necessario partire dall'esempio degli Jedi di Star Wars, ovvero che un insegnante, può avere solo un allievo alla volta: un Padawan (anche se questa parola mi ha fatto sempre pensare al "Padovano", lo "spritz forte" che fanno i bar per gli universitari Patavini).
Per tornare ad un concetto reazionario, secondo me è possibile apprendere un qualcosa in questo ambito, solamente andando a "Bottega".
 E' l'unico modo per crescere, per non avere sempre quella sgradevole sensazione di: " qui da noi, puoi imparare tutto, ma occhio che puoi anche non imparare nulla. Fai tu....".

Io non ho mai avuto questa fortuna, ma sono riuscito a crearmi dei surrogati di questa esperienza.
Io ho imparato qualcosa laddove ho avuto la possibilità di avere un contatto diretto e reale con chi insegnava. (Evitiamo le battute o i racconti, su chi di contatti coi docenti ne ha avuti, ma di genere orale o pubico; cosa non del tutto rara nemmeno questa. Non ci interessa, io volevo parlare di un altra cosa).

Qui forse (finalmente) si ritorna al motivo per il quale ho cominciato a scrivere questo post, ovvero l'errore.
Dicevo, il contatto con il docente è necessario  perchè è in quel contesto che si è legittimati a sbagliare nel modo giusto. Quando si vuole imparare l'arte, se proprio lo si vuole fare, è necessaria una certa dose di empatia con chi ti insegna. Un qualcosa che si crea quando, la riuscita di quello che fai dipende anche dalla riuscita del rapporto. O dal totale disfacimento del rapporto, ma di rapporto si deve trattare.
Un rapporto di tipo esclusivo non è da intendersi come una classe, uno studio vuoto, dove ci sono solo l'insegnante con il suo allievo. Non dev'essere inteso come un qualcosa di elitario in senso stretto o di "antidemocratico".
E' una cosa che può avvenire normalmente anche in una classe dove vi siano altre persone. Quello che conta è il link, che permette al lavoro di entrambi di avere legittimità piena.


Io ho avuto dei grossi scontri coi docenti con cui, ancora senza saperlo, avevo questo tipo di rapporto esclusivo. Non ho mai amato più di tanto le nozioni per così dire "dogmatiche" del disegno (in realtà nessuno le ama, sono noiose). Tutta quella parte in cui devi solo ripercorrere il lavoro di altri e ripeterlo, di cui sopra.
Ho avuto la chance di conoscere qualcuno a cui questo mio svogliato "disinteresse", interessava.
Quel qualcuno, mi ha portato a farmi disgustare talmente tanto queste nozioni, che senza rendermene conto, provocò in me il desiderio di sbagliare apposta, pur di farla finita con quella agonia.
Questa è una cosa fondante per me, e l'ho capita solo in questo modo. Ma ci sono arrivato solo con un enorme quantità di lavoro (che rifiutavo e mi disgustava, ma che mi costringevo a fare) e con il sostegno latente di qualcuno che mi aveva preso a cuore.
Eravamo sempre lì, nella struttura, con quel sistema simbolico contraddittorio e ambiguo. Ma qualcosa dell'esclusività del lavoro che si portava avanti, aveva fatto sì che si creasse un isola, in cui tutto il vociare di vuoti paradigmi sussurrati, venisse meno, sostituito da una reale e conflittuale operatività.
Io stimavo il suo lavoro, cercavo di imitarlo,  e nella fatica e nella frustrazione rimanevo sempre affascinato da quel suo alone di magica irraggiungibilità (altra condizione fondamentale).


Nel momento per così dire finale del nostro percorso insieme, questa persona mi disse che quello che facevo non valeva nulla, che ero solo uno dei tanti che aveva visto negli anni di lavoro e da cui aveva provato di estrarre qualcosa di buono;  mi disse anche che lo avevo deluso, ma se ne sarebbe fatto una ragione. Questo perchè, ad un certo punto avevo mollato, non riuscendo più a capire cosa farmene di tutta quella frustrazione accumulata.
Andai a casa e sul treno mi dissi che probabilmente io ero questo: uno dei tanti imbrattatori di fogli che si credeva chissà chi. Che non era la prima volta che una cosa del genere mi veniva detta. Che probabilmente non cambiava nulla. Che l'idea che mi ero fatto di come si dovesse essere per diventare un professionista, o comunque uno che consacrava la sua vita a quel genere di cose, non corrispondeva alla realtà: che mi ero fatto un film.
Al di là di tutto , ero affranto all'idea di aver deluso una persona che si era fidata di me. Soprattutto perchè era una cosa rara, e io l'avevo dissipata. Questo era il fallimento più grande.
Quando scesi dal treno, mi accorsi che mentre ero preso da queste considerazioni escatologiche, avevo quasi riempito un quaderno intero, di disegni. Disegni strani, che non avevo mai fatto.
Non andai più a lezione nelle settimane successive e quel quaderno stava sempre nella borsa, senza che avessi la voglia di riaprirlo, perché sapevo che vedere quegli schizzi mi avrebbe fatto pensare immediatamente alla tragedia umana in cui mi ero trasformato.
La fine del corso e con esso l'obbligo di consegnare qualcosa di concreto per l'esame finale si avvicinava, ed io stavo lì, a rigirarmi in tutto quell'amore per il disegno, andato sprecato.
Però lo feci, li riguardai.
Erano sbagliati.
C'era un atteggiamento pretenzioso, velleitario in quei disegni.
Cercavo di strutturare delle figure umane, mescolando a caso delle linee di costruzione, e utilizzando gli errori di calcolo per simulare una struttura. Queste figure si muovevano senza scopo, ammassate l'una nell'altra in ambienti neutrali, in spazi costruiti anche in quel caso con delle tecniche che ricordavo di aver visto da qualche parte, ma di cui non conoscevo il senso. Anche in questo caso, imitazioni di destrutturazioni spaziali viste chissà dove.


Era tutto sbagliato. Ne feci altri per trovare il modo di vergognarmene di meno. Alla fine ne feci credo un centinaio, di cui non ero mai soddisfatto. Ma dopo quei cento disegni, mi resi conto che non provavo più fatica o frustrazione nel momento in cui dovessi disegnare qualcosa. Quelle sensazioni erano scomparse. Riuscivo a disegnare senza provare il senso di fatica che avevo sempre provato, almeno da quando ero obbligato a farlo, per studio.
Mostrai questa roba al docente, che senza dire nulla, a parte "mi chiedevo dove fossi finito", prese quel malloppo e lo mise paro-paro nella cartella della mostra scolastica di fine anno. Lo stesso malloppo che poi sarebbe rimasto, assieme ad altri degli anni precedenti, negli archivi del corso , come esempio per gli allievi degli anni successivi. Era contento, ma non lo dava a vedere. E' andata così, positiva o negativa che fosse questa cosa.
Paradossalmente, se si volesse essere pedanti, si potrebbe dire che ho cercato anch'io una "regola", per quanto possa essere convinto di partire dalla negazione delle regole.
Che l'errore in cui sono caduto, nella relazione con un mentore, o nella fortuna di trovare una soluzione, un sentiero, laddove ragionevolmente, ci si sarebbe solo dovuti smarrire, sia stato pianificato e si è potuto verificare, solo perchè stavo in quel posto, in quella scuola, tanto bestemmiata.
Che non avevo un rapporto esclusivo con quel docente, o con gli altri maestri con cui ho avuto esperienze simili, ma che semplicemente quella persona era uno che faceva bene il suo lavoro e mi ha illuso di avermi preso sotto la sua ala, per ottenere il suo risultato.
Quello di cui sono certo è che il suo era il modo giusto per portare un cinno senza arte ne' parte a prendere consapevolezza dei suoi strumenti. Senza giri di parole sull'indicibilità dell'arte, o sull'impossibilità di conoscere quello che si fa. Sull'impossibilità di conoscere se' stessi.
Quelle sono solo cazzate.

In ogni caso, ripercorrere tutto questo mi aiuta a cominciare, ad avere meno paura, lo faccio ogni volta.
Non ho più smesso di disegnare in questo modo da allora, o almeno di "strutturare" il mio modo di disegnare così all'inizio di un lavoro, per poi arrivare a quello che consegno all'editore.
Parto dall'assunto, che se sbaglio, probabilmente sto facendo bene.






domenica, settembre 15, 2013

martedì, agosto 27, 2013

Originali in vendita

Dunque. Ho deciso di vendere alcuni dei miei disegni.
per chiunque di voi fosse interessato, quelli attualmente disponibili si possono vedere su questa apposita pagina Facebook: https://www.facebook.com/paolo.martinello.art.
Contattatemi tramite messaggio privato, o inviatemi un e-mail se siete interessati a conoscere i dettagli.

domenica, luglio 28, 2013

E' tutto a posto. Tutto normale.

Non mi disgusto facilmente. Nonostante questo non riesco a togliermi dalla testa i continui attacchi che sta subendo il Ministro Kienge. Non ce la faccio proprio.
Penso due cose , vedendo ciò che accade: la prima è che in un certo senso mettere un ministro di origini africane nel nostro parlamento, sia stato un colpo di genio, perché allo stesso modo dell'aver messo una trappola per topi con un bel pezzo di formaggio, tutti i ratti che infestavano il nostro appartamento stanno uscendo allo scoperto, ufficialmente.
La seconda è il rendermi conto che la cosa non mi da sollievo. L'avere la conferma definitiva che il nostro è un popolo infestato da idioti, profondamente immaturo, con valori culturali e di comportamento tardo Medioevali, non mi fa sentire bene. E non parlo solamente delle questioni legate al razzismo.
Io provengo da una regione in cui certi valori legati alla territorialità sono piuttosto radicati, per usare un eufemismo. Le vicende legate al Ministro, mi toccano parecchio per il semplice motivo che conosco bene la genesi di un razzista, so come si fa a diventarlo. La cosa agghiacciante è scoprire che poi queste persone non si sentono assolutamente razziste, ma credono solo di agire secondo buon senso, o per attaccamento a tradizioni familiari. Quando basterebbe aprire un giornale, leggere un libro, informarsi per vedere che la realtà non è quella che senti bisbigliare dai compagni di scuola, dai colleghi di lavoro, o dalle "signore" che incontri in chiesa, ma nessuno lo fa. E' tutto incredibilmente semplice, innocuo (consueto, per così dire) e per questo pericolosissimo.
Io penso o voglio credere, che dopo qualsiasi medio evo, arrivi anche un Rinascimento.
Tuttavia non so in che modo gli artisti o chiunque altro faccia cultura in questo paese, possano produrre ancora sensibilizzazione reale verso certe questioni o se non altro suggerire le modalità secondo le quali un paese possa crescere, possa appropriarsi dell'idea che la cultura, l'apertura verso l'esterno sono le sole cose che diano forza e identità ad una nazione.
In linea di massima, credo che la maggior parte delle persone che fanno cultura in Italia, siano vili o opportuniste e credo che sia per questo che molto di ciò che succede in questo ambito non pigli piede. Sono così non perché l'ambiente richieda questo, ma perché dopo generazioni di indifferenza da parte di chiunque, chi riesce ad ottenere qualcosa e avere voce, non rischia mai, per non perdere le posizioni ottenute con tanta fatica, o peggio per non raggiungerle mai.
Tra i vili, mi ci metto anch'io, ci mancherebbe. Credo anche che non serva molto coraggio per dire che i fascisti e i razzisti sono delle merde. In fin dei conti faccio parte della generazione che è venuta su pensando che Mtv fosse cultura.
Credo invece serva coraggio per fare qualcosa di significativo che porti questa gente, a cambiare idea. Servono fatica e lavoro per dimostrare "l'ovvio" è sempre stato così.

giovedì, luglio 18, 2013

fase due: pensare e forse disegnare

La lettura del faldone rilegato è compiuta, il pacchetto di patatine svuotato, la stanza è colma di intensità come forse avrebbe voluto Gino Paoli.
Ho preso due appunti due su delle idee per visualizzare una scena, che forse eluderò perché non mi convincono niente. Questo è un buon segno perché significa che la storia mi è piaciuta.

Cosa succede adesso?
Da dove sgorga quel flusso-di-incontaminate-emozioni-che-guidano-la-mano-dell'artista-sul-foglio-pronto-a-raccogliere-nitide-le-tracce-di-eternità-che-in-quel-loco-vorrà-imprimervi-tramite-inchiostro?
Da ggiovine tutte le volte che osservavo i professionisti navigati disegnare una storia pensavo questo, chiaramente in termini diversi. Mi chiedevo : "come cazzo fanno?"

Nelle osservazioni, nei dialoghi con queste persone, con questi "maestri", forse cercavo di alimentare la mia naturale pigrizia nel non voler trovare soluzioni, ma sempre e solo rimediare scorciatoie: la strada in salita, diciamolo, ha sempre fatto schifo a tutti. "Spiegami un trucco: dimmi come si fa a fare in dieci minuti un ponte in prospettiva. Dimmi se esiste un modo per disegnare un corpo umano anatomicamente coerente già da domani mattina."
Ma se nei maestri qualcosa ci arriva ad essere utile, é il loro non rispondere mai alle nostre domande.
E allora come ci si prepara? Come si affronta il disegno di una storia a fumetti? Da dove si comincia?
Facciamo delle ipotesi: mettiamo si  tratti di un flusso di coscienza ammaestrato, di una danza di scimmie in una stanza priva di gravità, o come mi aveva detto qualcuno (di importante per me), un dialogo con se' stessi nella galleria del vento. Componenti meccaniche che addestrano il caso, la fortuna, il talento, e altri elementi intangibili.

La tecnica, l'ispirazione, la preparazione atletica, la disposizione filosofica, l'essere pronti al sacrificio, l'essere vuoti e colmi allo stesso tempo, amare, odiare, aver visto cinquantamila film, aver ascoltato duecentomila dischi, aver visto mostre inutili in posti remoti (Anthony Caro, "Il Giudizio Finale", su uno degli isolotti satellite di Venezia), rendersi conto che nulla è inutile, e allora cercare cose ancora più inutili, ancora più remote, ostinatamente di parte nel non voler essere di parte. E ancora leggere Roland Barthes, leggere i porno e la Settimana Enigmistica, leggere Toppi. Vedere una strada possibile in Toppi e scoprire che è un vicolo cieco, sfogliare le riviste di psicologia dell'arte, trovare altri vicoli ciechi.
Fare musica, fare sesso, fare la spesa, fare commissioni inutili, fare ginnastica, fare continui atti di fede senza che nessuno se ne accorga, mentre lo fai. Fare.
Nascondersi per vedere se poi è vero che  si è più attraenti da trovare.
Conoscere la morte di una persona cara, accettarne il peso di una seconda di lì a poco. Vedere un coperchio appena sopra il cielo come diceva quell'idiota di Baudelaire, accettare quella visione. Rifiutare quella visione e ripartire come se si avesse risolto.
Convincersi che la realtà non è altro che uno specchio, che uno specchio non è che la finestra di casa da cui si scruta fuori, osservare il paesaggio e scoprire  che qualsiasi paesaggio è un volto.
Riconoscersi in quel volto anche se non è il proprio, amare quel volto.
E ancora perdersi, inutilmente ritrovarsi, e attorno a se' scoprire ancora una volta il mondo, così difficile da prendere, così impossibile da trattenere.
Se esiste un modo per dare una senso coerente a tutto quell'insieme informe di cui sopra e conseguentemente vedere chiaro su ciò che si deve fare, io non lo troverò mai, mi dico sempre.
Fare pulizia, cercare ordine non serve a nulla se non si ha nulla di significativo da organizzare. Studiare, informarsi, accumulare e immagazzinare non serve a nulla se non si hanno capacità organizzative che portino alla visione di un progetto, se non si ha discernimento.

Ordine e discernimento sono parole che non hanno mai fatto parte del mio vocabolario. Nonostante questo, il mio coglionissimo spaesamento di sempre mi serve per partire a disegnare. Lo sperare che ancora una volta io non venga tradito o ingannato da me stesso, dalla mia vanità soprattutto, è un ulteriore sprone.  La paura c'è e anche quella va bene che ci sia, ma non deve prendere troppo spazio, altrimenti si rischia di sfociare nella vanità di cui sopra.

Ok, gli strumenti sono pronti, e non sto parlando di matite, inchiostri vari e altre cazzate simili.





lunedì, luglio 08, 2013

fase uno: Stampa della sceneggiatura


Forse terrò un diario, forse no. In ogni caso, ora avrei una buona ragione per farlo: da qualche tempo sono un disegnatore della Bonelli. Almeno finchè non si accorgono di aver fatto una cazzata e mi sbattono fuori, dicendo che mi avevano scambiato per un altro. Devo fare uno dei loro fumetti. Se il vento tira dalla parte giusta, ne scriverò.

Quando mi arrivò il file della sceneggiatura ho subito voluto avere il faldone rilegato con una di quelle merdosissime dorsette ad anelli che usano per le dispense all'università, che pure quando facevo l'università ho sempre odiato a morte, perché mi facevano subito pensare a tutte le ore che ci avrei sprecato sopra invece di fare qualcosa di più utile, tipo drogarmi o fare volantinaggio per un "pizza Drin".

A pensarci bene, quando facevo l'università (L'Accademia o quello che è) ho fatto proprio le consegne in motorino per un "Pizza Drin". Me ne andavo su e giù qualunque fossero le condizioni atmosferiche globali, portando delle pessime pizze da forno elettrico a dei pessimi vicentini che se le mangiavano di gusto: mille lire a pizza consegnata. Ci pagavo giusto la miscela. Poi ho smesso, la sera che mi rifiutai di uscire in motorino perché Eolo, Zeus e Nettuno avevano deciso di scagliare tutta l'acqua dell'universo su di noi poveri mortali.
Feci le consegne con la Panda del pizzaiuolo capo, ma al ritorno vidi che il mio motorino, all'incrocio vicino alla pizzeria, era stato prestato ad un altro sfortunato consegnatore, che nella sua euforia giovanile aveva bene pensato di schiantarsi contro una Mercedes. 

Comunque. Per la dispensa della Bonelli, ho scelto la peggior copisteria del mio quartiere. Un luogo che non sfigurerebbe in quella trasmissione sugli accumulatori compulsivi, gestito da una signora incazzatissima e dalla figlia (di un'età indefinibile, tra i sedici e i quarantaquattro anni). Entro lì di norma per chiedere delle cose difficilissime e piccolissime da reperire, per sfidare quelle due a trovarle sotto le cataste di monnezza che loro sostengono essere un negozio di articoli di cancelleria. Aspetto che una nutria esca fuori da una scatola di evidenziatori, tipo giocattolo a molla. Che un avanzo di carbonara spunti dal cassetto delle spillatrici. 
Sono andato lì perché sostanzialmente me la voglio tirare. Mi sono detto "come minimo uno al mio posto, con la prima sceneggiatura importante per la Bonelli, se la va a far stampare in carta filigranata a Fabriano, come minimo. Se la fa rilegare in pelle di bufalo, si fa mettere una sopraccoperta di piume di fenicottero della Camargue. Io No! Cristo! Io vado nella copisteria di merda per ostentare un profilo basso!"
La figlia pazza della copisteraia, disincastrando un monitor a fosfori verdi dalla macchina per rilegare, mi dice " gliene metto una solida di molla, chissà quante volte  dovrà sfogliarla, la sceneggiatura….
Anche lei sapeva dunque che io sono uno lento. Non capirò mai come ha fatto a scoprirmi, ma lo sapeva. Probabilmente è una che segue i blog, una che sta su internet. Si sarà appuntata il titolo della storia e mi aspetterà al varco per vedere quanto ci metto a disegnarla tutta. Forse è addirittura una dei pezzi grossi del forum della serie. Forse ha già scritto da qualche parte che l'albo farà schifo al cazzo e che sono quindici anni che non legge più una storia decente su quella testata.
In ogni caso esco dalla copisteria, la porta si chiude maestosa con le due tipe che mi fissano immobili, risucchiate nell'oscurità.
Prima di andare a casa, acquisto delle patatine tipo Dixi, come supporto morale per la lettura.
Mi dico che la prima lettura è la più importante. Che i disegni che infili nella storia li hai già in testa alla prima lettura e quelli rimangono. Quello è l'imprinting, tipo che devi stare davanti all'uovo di drago per fare in modo che quando si schiude ti consideri la sua mamma per sempre e spappoli i tuoi nemici senza farsi troppe domande. Mi dico che spero di avere i disegni giusti nella testa. 
Forse devo prendere appunti mentre leggo.  Forse mi devo iscrivere in piscina perché ho 37 anni e conduco una vita sedentaria fumando e mangiando Dixi.

Comincio a leggere.