lunedì, dicembre 31, 2012

Mytico 2012

Sentite, se devo pensare a quello che è successo quest'anno, credo di potermi considerare una personcina soddisfatta. All'epoca in cui non credevo sarei mai riuscito a trasformare in un lavoro quello che facevo per i cavoli miei o per la bacheca della mia classe, mi ero addestrato a convincermi che le cose tipo essere pubblicati ed essere pagati per i propri disegni, succedevano a persone che abitavano altri pianeti, irraggiungibili dai comuni mortali disegnativi.

Oggi posso dire che queste cose succedono ai terrestri e incredibilmente anche ai terrestri italiani.
Se questi terrestri sono ancora più fortunati gli capita di fare un qualcosa che piaccia ai lettori.
Se proprio hanno una fortuna sfacciata, questi qua fanno un qualcosa che piace ai ragazzi e che ispira quei ragazzi, spingendoli a disegnare e a raccontare a loro volta, esattamente come era successo a loro, secoli prima.

Quindi grazie anno che te ne vai, per avermi fatto vedere le facce di quei ragazzi, per avermi permesso anche in minima parte di contribuire ad averli ispirati e spinti a leggere ed amare i fumetti. Grazie per avermi dato la possibilità di condividere con loro l'idea che i racconti disegnati, sono sempre capaci, ancora oggi, di trascinare, ispirare, illudere, divertire, commuovere, far incazzare, far trepidare nell'attesa del numero dopo, e far dire "forse anch'io voglio fare quella cosa lì, di lavoro, domani".
Dedico tutto ciò dunque a coloro che hanno disegnato, scritto, coordinato e direzionato, ma soprattutto a quelli che hanno letto.


venerdì, dicembre 28, 2012

Dylan is coming.

Oggi per me è un giorno importante. Non spenderò quintali di parole su quanto per me abbia significato Dylan Dog quand'ero ragazzo,  ma sappiate che vedere una mia immagine sull'editoriale dell'ultimo numero della serie regolare, mi ha veramente emozionato.





lunedì, dicembre 03, 2012

lunedì, novembre 19, 2012

Delirio mistico sul colore


Da piccolo avevo la fissazione delle scene dipinte della Passione di Cristo. Tutte le rappresentazioni di quell'uomo dapprima accolto a Gerusalemme come un eroe , un trascinatore infallibile  e poi tradito, vilipeso,  flagellato e appeso ad una croce di legno come un animale, mi hanno sempre preso in modo assurdo.
I colori delle palme, delle strade sassose, della cena illuminata da poche candele, della vergogna del Getsemani e poi di questa lenta discesa verso il disfacimento totale del corpo. Questa Epifania di sangue e di torture. I fiotti di sangue dal costato, il sudario imbrattato, i ladroni con le gambe spezzate.
Sono più o meno i primi ricordi a colori che ho delle cose che mi interessavano disegnare. 
Mi piacevano proprio, i colori di quelle scene.
Stranamente credo di aver avuto una sorta di ubiquità a livello di interessi disegnativi all'inizio. Da una parte c'erano l'incredibile Hulk e Superman, che mio fratello disegnava in modo fichissimo e che quindi io invidioso della sua bravura tentavo di imitare. Dall'altra questi vangeli di pregio che giravano per casa, che mi ricordavano alcune delle immagini che vedevo nelle chiese della mia città:  queste storie illustrate che per me non erano differenti dagli altri libri di fiabe che i miei mi mettevano in camera. 
La storia della Passione mi affascinava forse per un certo retrogusto macabro e scabroso che non trovavo nelle favolette. 
Io avevo questi piccoli cartoni telati che mi arrivavano regalati dal negozio dei miei zii, assieme a dei tubetti di acquerelli.
Mi sembrava ovvio dipingere su quelle piccole tele le scene della Passione, soprattutto quelle con Cristo sul Golgota, per poi restituirgliele.
Credo che vedendo questo piccoletto di otto/nove anni che a Natale, Pasqua e compleanni vari, arrivava sempre in casa loro con questi strazi umani dipinti, per dono (mettevo quasi sempre Gesù coi due ladroni, mi ero specializzato in questo), i miei zii avessero pensato di avere in famiglia un bambino disturbato. Forse avrebbero preferito gli portassi Hulk. 
A pensarci ora, probabilmente potevano pensare che i miei genitori mi maltrattassero, costringendomi ad una rigida e ossessiva educazione religiosa.  Niente di tutto questo. 
Alla fine mi interessavano di più le scene di un eroe religioso sconfitto e straziato, di quelle  degli altri supereroi americani vincenti. Credo che fosse per un attrazione verso la rappresentazione del fallimento e della caduta disastrosa. Unita ad una non trascurabile dose di Fantasy ( i miracoli, i raggi dello spirito Santo, le resurrezioni eccetera)
Pur facendo uno sforzo notevole per affermare il contrario, quella di Gesù rimane una delle figure sovrannaturali più umane in assoluto, soprattutto per la parte della fine della sua storia in carne ed ossa.  
E a pensarci, anche le rappresentazioni di tutti quelli che hanno tentato di imitarlo in questa sorta di eterno agonismo autodistruttivo in nome della fede, cioè le storie martiri (gli spin-off del vangelo) non sono da meno.
Da quasi adulto, in nome di questo fascino per il corpo sacro straziato, ho anche consegnato una tesi in Accademia su un argomento del genere. Una tesi che aveva per l'appunto il titolo di "Agonismo dell'abiezione": una specie di riflessione a tutto tondo sulle immagini del supplizio, sia quello religioso, che quello civile. 
Un titolo per cui i miei amici mi hanno preso per il culo per anni.
In ogni caso se devo pensare ai colori che mi hanno segnato, sono quelli lì. I colori delle immagini sacre e nella fattispecie quelle del martirio. Per dirla in modo diverso, le immagini della "sacralità del Martirio", di cui la Chiesa si è fatta forte nei secoli.
Perché per quanto io possa pensare male della chiesa e di tutto l'apparato religioso, credo che nessun disegnatore o autore possa prescindere dall'influenza che le storie e le immagini del vangelo abbiano avuto sulla propria arte. Alle immagini di Giotto, di Michelangelo, di Piero della Francesca, di Caravaggio e di tutti gli artisti che hanno messo soprattutto "uomini", nelle immagini sovrannaturali.

Penso a questo mentre metto i colori sulle pagine di Dylan riflettendo sul modo in cui sono arrivato qui. 
La storia che sto disegnando parla di una caduta disastrosa, (che io non voglio assolutamente paragonare a quella di Cristo, lo metto subito in chiaro).Parla della fine di una figura eroica. Parla tra le altre cose, di come tutto ciò che sta attorno al protagonista si ammali, deperisca e muoia.
Mentre concludo l'apparato scenico di queste pagine, mi addestro a pensare ai colori della caduta e della fine, ai colori di qualcosa di tragico. Penso che se esiste una necessità imprescindibile, nel momento in cui si ha a che fare con un personaggio archetipico come Dylan, sia quello di scavare nel profondo di ciò che si è per trovare le tracce di come dev'essere rappresentato. E io scavando ci trovo mio malgrado quello che ho appena scritto. 
Mi rendo conto  che tutto ciò che è archetipico, iconico, è per sua natura sacro, e penso di essere fottuto. Penso anche che devo consegnare le pagine di un fumetto per ragazzi e non certo un compendio sull'escatologia occidentale. 
Ma tutte queste sensazioni convergono e non ci posso fare nulla. Penso che la mano che dipingeva le crocefissioni sulla tela da regalare agli zii a  Pasqua è la stessa che sposta i pixel sul tizio inglese con la camicia rossa. E forse che sto andando completamente fuori di testa per colpa di questo mestiere.


giovedì, ottobre 25, 2012







disegno per la cover dello "Steampunk Nouveau Folder", del gruppo "Drawers", acquistabile a Luccacomics.

venerdì, ottobre 12, 2012

Bologna. Corso di colorazione Digitale professionale 2012

Per tutti i Bolognesi, o i Limitrofesi della zona, è il momento di sapere che Lunedi 22 Ottobre dell'anno 2012 Dopo Cristo, alle 18 e 30 ora italiana, presso La PGM, in via Santa Rita 4 (Bologna), avverrà la presentazione del Corso di Colorazione Digitale Professionale, curata da me e dal superlativo Umberto Stagni. Non potete fare finta di niente, come al solito.



martedì, ottobre 09, 2012

underground e overground

Il secondo pippone, ovvero la necessaria chiosa all'argomento "lavoro" iniziato con il post precedente, riguarda la fase successiva di chi ha scelto di fare il disegnatore o il fumettista nella vita, cioè trovare un applicazione pratica e remunerativa delle sue attitudini.
Premessa
Questa fantastica fase (ovvero quello dell'affermazione della propria identità in un modo ancora più specifico) è quanto di più problematico, complesso e tortuoso possa esistere per chi fa un lavoro di tipo creativo. Non riguarda solo il fumetto in realtà, ma ci stiamo belli dentro anche noi.
Una volta addentraticisi, non si sa di essere lì, in quel momento storico della propria esistenza, ma si pensa di stare bene, di essere tranquilli, come una barchetta su un fiumiciattolo, cullati dalle timide correnti dell'autodeterminazione e dal compiacimento che ciò  procura. Ma il gorgo è in agguato.
Mi rendo conto dell'abuso di comparazioni acquatiche nell'esporvi il mio pensiero, avendo già utilizzato il termine di paragone dell "oceano delle necessità", ma non ci posso fare nulla, mi va così e 'sti cazzi dunque.
Quando ho cominciato a provare a fare questo lavoro ho pensato istantaneamente che il pubblico che ancora non conosceva la mia opera, non attendesse altro che me per riconsiderare il modo in cui misurare la realtà,  e che bramasse  da sempre di percorrere queste nuove vie, da me suggerite,  per essere ispirati e trascinati in una nuova visione del mondo: l'unica "gravida" di verità e di bellezza.
Visione che avrei trasmesso a piene mani attraverso i miei disegni e le mie storie.
Tutto questo si appoggiava su un assunto, un assoluto che dà legittimità a chi si muove in questo senso.
Una consapevolezza latente che spinge chiunque faccia il creativo a cercare il nuovo. Ci si  dice:
tutto cambia, il mondo si evolve, cambiano le persone, le parole, i suoni, le visioni. A tutti è necessario il nuovo per progredire. Io sono il nuovo.
E allora cambiamolo questo mondo.
Lo diceva anche Caparezza, in uno dei suoi primi pezzi che ricordo :" Tutto ciò che c'è, c'è già; e allora nei miei pezzi che si fa?".
Ci si immagina artefici di uno scarto temporale, di un gap generazionale, suggeritori, provocatori malandrini di un sussulto nella percezione collettiva per sentirsi necessari, a buttare le proprie cose sotto gli occhi del maggior numero di persone possibili. Io almeno la vedevo così.
Cerco di descriverlo senza addentrarmi nelle ragioni per cui uno che disegna, si debba sentire così.
Sorvolo sui drammi parentali  che hanno spinto un disegnatore ad esprimersi in cotal guisa e a cercare consensi con quelle  specifiche modalità.
Nonostante tutto, ecco che le nostre cose cominciano ad essere mostrate agli altri. Ed ecco quello che succede:


Autodafé

C'è da dire che leggere la striscia di Schulz (suggeritami dall amico Andrea Borgioli) sarebbe sufficiente a chiudere qui il discorso. Ma mi è necessario fare il punto, fare una riflessione su ciò che ho visto e vedo facendo da un po' di tempo questo lavoro.

Questa che io sentivo come ispirazione, compito, pulsione naturale, (compulsione naturale) si chiama presunzione, con la P maiuscola. Presunzione, unita ad una non trascurabile quantità di sfiga atavica.
Non ero necessario al mondo, o meglio, le cose giravano lo stesso anche senza di me. Fu una constatazione semplice, ma fondamentale.
E' una considerazione che posso fare solo a posteriori, in quanto chi fa queste cose, deve essere almeno un pochetto così. Dev'essere cioè convinto che dopo di se' esista solo il deserto, l'apatia e il déjà vu per muoversi e fare qualcosa. Dev'essere convinto che i suoi significanti, lo siano per tutti, all'unanimità.
Ma come dicevo prima il gorgo dell'autodeterminazione ci aspettava per inghiottirci.
Per me fu naturale non autoimpormi nessun filtro, nessuna autocensura quando cominciai a pensare di dire e mostrare qualcosa con i miei disegni.  é una cosa che fanno i bambini, e bambino mi sono sempre sentito in questo senso.
Credevo bastasse sigillare sui fogli il mio modo di vedere le cose in modo autentico, sincero e (potendo scegliere) formalmente attraente. 
Mi resi conto poi, che non era sufficiente l'autenticità per essere cagati. 
In ogni caso, facevo queste cose:


Questa si chiamava "Selezione naturale", un qualcosa di incomprensibile fatto con una "closure" assassina che si ispirava ad un disegnatore americano che avevo visto su "Tank Girl", un' agghiacciante rivista indipendente dei GGiovani post-grunge. Al Columbia. Inutile che cerchiate, non troverete traccia di lui in quei disegni.
Ma fu la prima volta che provai a fare qualcosa di più astratto del solito. Involontariamente, fu una cosa che mi spalancò il cranio e mi fece  venire voglia di sparare in tutte le direzioni. Avevo trovato una specie di chiave per una parte del mio cervello che non avevo mai usato. Dialogavo con quella parte di cervello, e la mano mi restituiva qualcosa che mi somigliava :













Raccolta tutta questa fuffa dal mio subconscio, mi cimentai con quest'altra storiella, ancora più esaltante, dove decretavo di essere definitivamente inghiottito nel gorgo dello spippamento cerebrale:





Era una specie di parodia dei fumetti di genere "investigativo", ma nessuno l'ha mai capito.
Poco m'importava che fosse una cosa ombelicale. Che somigliasse più ad un insieme di appunti mentali di angosce e suggestioni sovrappensiero, che a una storia sensata. Ormai c'ero dentro.
Mi fu utile per rompere il ghiaccio con il Centro Fumetto Andrea Pazienza, giusto quello. Volevo pubblicare con loro, perchè sapevo che erano una delle realtà migliori, nel panorama degli indipendenti.

Pubblicazione

Mi guardavo intorno, c'erano parecchie realtà per così dire minori già allora (Katzyvari, Interzona, le cose dello Shock Studio e mille altri)  ma nulla mi ispirava più fiducia di "Schizzo"  e delle cose che ci vedevo pubblicate sopra. Ci provai e la  prima volta che arrivai da loro a Cremona, successe l'inaspettato. Mi dissero che non gli sembravo adatto a pubblicare per loro, o almeno, non ancora.
Non vedevano nulla nelle cose che facevo, oltre ad un mero esercizio di stile fine a se' stesso. Niente storie, niente profondità. Solo estetica.
Altro sblocco, il secondo. Non basta fare le mosse di Bruce Lee nell'aria per fare male alla gente. Alla gente ci devi menare sul serio per farla capicollare. Questione semplice ma fondante.
Ok autenticità, non mi basti. Anche la mozzarella di Mondragone è autentica, ma mica te la leggi la sera a letto prima di dormire. Sgocciola sulle lenzuola. Forse sono scemo e non ho nulla da dire. Forse no. Devo solo sintonizzarmi e riuscire a capire come dirlo. Questo sempre col presupposto che l'universo continuava a fregarsene di me, ma quello ormai era quasi una cosa di cui vantarsi, giunti a quel livello.

Da qui lunghi e prolissi scambi di mail (io? Prolisso?) altri incontri, spiegoni e materiali inediti e finalmente riuscìi a convincerli. Mi pubblicarono due storie sulle tre che ho fatto per loro. Me la meno dicendo anche che dopo le prime pubblicazioni, mi proposero l'ambitissimo numero Monografico, solo con le mie cose, ma per una serie di ragioni, non meno importante la mia idiozia, non se ne fece nulla.
Comunque:



In un altro luogo editoriale quindi, pubblicai un'altra storia che avevo promesso a quelli di Schizzo, perchè ormai giravo come una trottola, cercando la fama. Per una casa editrice di Padova che si chiamava Brillosto, e che faceva questa rivista di nome "Mamba".
La storia si chiamava "La vendetta degli stanchi". Quindici pagine di silenzio, tranne per due battute.


Di Mamba, non fuoriuscirono altri numeri dopo il mio.
E qui successe che cominciai a guardarmi attorno.
Molte altre riviste indipendenti aprivano e chiudevano con la medesima rapidità.
I nomi degli autori che pubblicavano su quelle pagine erano sempre gli stessi.
Sembrava una staffetta.
E qui finalmente, si arriva al dunque.
Perchè lo stavo facendo, se nessuno mi pagava per farlo?
Dopo il primo e il secondo sblocco, ovvero dopo aver preso coscienza dei propri mezzi, arriva il fatidico: "Sivabbèmacomecimangioco'starobbaqqua?"
Mi si può dire:"vabbè anche se non ci guadagni, vuoi mettere la gnocca che tiri su alle fiere di fumetto dicendo che hai pubblicato qualcosa negli indipendenti?"
Avete presente zero? Ecco, da quel punto di vista lì era zero.
Allora c'era il miraggio della visibilità. Altro capitolo densamente popolato di dubbiose riflessioni.
Per quel tipo di riviste si parlava di 1500 copie tirate, quando andava bene. Quando andava male ne tiravano di meno e ti chiedevano un contributo anche a te per stamparla.
Poi andavi in fumetteria e vedevi tutti questi numeri unici di riviste indipendenti che più che essere in vendita, sembravano la collezione del libraio. Stavano sempre là, negli scaffali. Andavi alle fiere e vedevi che le riviste venivano vendute a quelli che stavano nel tuo ambiente: disegnatori, librai, critici, piccoli editori.
Per farla breve, non mi tornava un granchè.
Terzo sblocco, allora. Proviamo con il colore:





Il bivio
Il colore funzionò. Nel senso che mi procurò lavoro come illustratore, soprattutto con l'editoria per i ragazzi e la pubblicità. Ma pose uno stop alla mia avventura di autore.
Successe dunque qualcosa di importante, ma sinistro. Se volevo procurarmi da vivere utilizzando le cose che sapevo fare, dovevo utilizzare la parte diciamo così più mainstream della mia produzione, l'immediatamente fruibile, ovvero il bel disegno inteso in senso accademico. Punto. Qualcosa che il mercato riuscisse a codificare ed utilizzare immediatamente, senza interrogarsi  su ciò che volevo dire. Sui contenuti cioè. Nel senso che i contenuti mi venivano forniti da altri ed io li visualizzavo.
I miei contenuti erano rimasti underground, mentre l'atto che avrebbe permesso di celebrarli, era overground.
 Ultimo tentativo
Facendo un passo in avanti, ci ritornai qualche anno dopo facendo "Delethes", forse ve lo ricordate. Lì ho fatto sul serio per la prima volta, avevo pensato ad una serie scritta e disegnata completamente da me e mi ero impegnato a darci dentro nonostante le risorse dell'editore non fossero da kolossal. Col miraggio di oltrepassare i confini Italiani e mostrare le mie cose in Francia, visto che la casa editrice distribuiva anche là. Con la convinzione che quello che avevo da offrire fosse sufficiente a far smuovere qualcosa.

In quel caso, ho fatto per la prima volta conoscenza con quelle che sono le condizioni standard di qualsiasi contratto di edizione per romanzi grafici in italia, non giocavo più, per così dire. Un mese di stipendio da impiegato per realizzare tutto il libro e il miraggio delle percentuali sulle vendite, una volta superata la percentuale dell'anticipo ( perchè il compenso è un anticipo sui diritti della prima tiratura). Un mese di stipendio da impiegato per un anno e mezzo di lavoro.
A posteriori, posso dire che quello fu uno degli anni più pesanti della mia vita. I soldi che avevo preso per il libro, mi bastavano giusto per qualche mese di bollette, ma per il resto, zero assoluto. Con in più il magone di dare il massimo in ogni secondo, per uscire con qualcosa che sia il meglio di quello che puoi dare all'umanità in termini di storia e disegni. Il tutto sempre per rincorrere il miraggio della visibilità.

In più, si trattava di fare un ulteriore compromesso.
Ho cercato di muovere le mie pulsioni autoriali, attraverso i limiti del fumetto di genere, nello specifico, la fantascienza. Ma lì il problema stava a monte: avrei potuto fare anche tutt'altro genere di storia, visto che la casa editrice non aveva i mezzi per competere con i circuiti mainstream, nè in Italia, nè all'estero. Era ed è una realtà che si muove all'interno delle realtà indipendenti, ma all'epoca non me ne ero accorto, o più semplicemente non mi interessava. Mi sembrava di poter unire il mio desiderio di scrivere, a quello di condirlo con dei disegni che fossero commercialmente codificabili. 
In realtà la serie era prevista in tre volumi. Ma l'editore non accettò mai le condizioni che avevo posto per chiuderla col secondo volume. Non ce la facevo a farne un altro in quelle condizioni.

Dopo questa esperienza,  mentre mi accingevo a dare il via ad una serie di progetti di tipo istituzionale, (che grazie al cielo avevo ottenuto) continuava a guardarmi attorno, dicendomi che non sarei comunque mai riuscito ad abbandonare completamente la necessità di raccontare qualcosa di completamente mio. 
Ma mi è impossibile, attualmente, accettare le condizioni che gli editori offrono a chi vuole proporre materiale originale, a chi vuole fare romanzi grafici o qualunque altra cosa definisca il termine "libro a fumetti". Non posso più investire in questo senso. Non nell'immediato almeno.
Ma nonostante il fatto che mi vada bene, che sono appagato professionalmente, il desiderio di fare qualcosa come autore rimane sempre lì. Lo sanno bene i miei amici e colleghi, a cui rompo sempre i coglioni dicendo " Da un momento all'altro, mi metto a scrivere un nuovo libro per i cazzi miei"


Conclusione

E dopo un sacco di tempo ho capito una cosa; c'è chi ci arriva subito, io ho impiegato un bel po' di anni: il fumetto e l'illustrazione appartengono alla categoria dell'intrattenimento e della comunicazione di massa e solo in quell'ambito trovano legittimità. Possiamo fare i salti mortali per cercare di credere il contrario, e piango e mi dispero pensando che non abbiano una forma più pura di questa. Inutile pensare di poter fare arte in senso stretto quando si fanno fumetti o illustrazioni.

Sono però modi espressivi che hanno una straordinaria specificità. E la specificità a cui mi riferisco, non ha minor potere di entrare nell'anima delle persone, dell'arte; ci arriva solamente attraverso vie meno intricate. Nel nostro lavoro si è soggetti a delle regole espressive, a delle meccaniche di movimento, che vanno attuate altrimenti il giocattolo non funziona. In questo senso è una forma espressiva meno pura. Ma trattiene una spettacolare specificità.

Nel migliore dei casi e con i cuori più infuocati dietro quelle matite, si arriva a mostrare un qualcosa che solo attraverso il fumetto  e l'illustrazione trova l'apice espressivo, l'unità di tempo, luogo e spazio assoluta: un qualcosa che può raggiungere tutti i neuroni e le sinapsi del lettore solo in quel modo: la perfezione formale attraverso la quale il contenuto sublima. ( in senso Aristotelico, mica cazzi).  
Se si prende atto di questo,  cioè si accetta  un meccanismo creativo specifico nel momento in cui si fa il fumettista o l'illustratore, si deve anche accettare che è necessario esprimersi anche in luoghi specifici. Per far sì che la propria opera esista e abbia una diffusione capillare, è necessario confrontarsi con la  produzione commerciale, utilizzando i compartimenti stagni del fumetto di genere o dell'illustrazione istituzionale. O almeno fare in modo che sembri tale. Questo perchè?
Perchè chi costruisce e scrive storie a fumetti, vuole avere voce, e vuole che questa voce si senta: sarebbe ipocrita pensare il contrario.
Come faccio allora ad avere voce se il circuito dell'editoria indipendente, non ha il potere di amplificarla?
Come si supera il paradosso secondo il quale, l'autenticità di cui si parlava prima, non può trovare espressione e diffusione se non utilizzando i canali commerciali?
In che modo accetto il fatto che le mie storie, fino a quando non oltrepassano la soglia dell'effettiva visibilità collettiva,  sono un qualcosa che rischia il soffocamento da autoreferenzialità?
Me lo chiedo, soprattutto perchè una larga parte dei talenti che si muovono all'interno del panorama degli indipendenti e del fumetto autoriale, vive invece (nella peggiore delle ipotesi) costruendo la sua ragione d'essere sul vanto di appartenere ad un élite, o a una nicchia.
Una cerchia di cetacei che gravitano al di fuori della categorizzazione "Fumetto di genere".
Un circuito che si autoalimenta, sostenuto dagli appassionati e dalla massa dei vari Wannabes rimanendo inconsapevolmente "fuori" dal luogo dove a rigor di logica dovrebbe trovarsi.
Dal mercato.
Anche perchè l'essere autentici  di cui si parlava all'inizio, cosa che si presuma debba essere fondante quando si è "Autori indipendenti", nel momento in cui si ragiona in termini di commercio (perchè l'editoria è una categoria commerciale, giusto?), è essa stessa una caratteristica estetica "relativa" come tutte le altre. Soggetta alle regole del mercato.
Tutto questo ci porta a capire la contraddizione che sta alla base del nostro settore.
Perchè si fa finta di ignorare che viviamo in un paese dove la novità, la sperimentazione, la ricerca non sono una priorità.
Si dimentica che il  nostro mercato non rischia e non mette in gioco nulla di aggressivo dal punto di vista creativo. Succede magari nel mondo della moda, del design, della ristorazione, ma non in quello del fumetto, della musica, della scrittura o del cinema. La nostra epoca è questa, ed è un riflusso che esiste non solo nel nostro mercato. Nonostante la marea di talenti straordinari di cui disponga il nostro paese.
Momentaneamente abbiamo perso gli appunti su cui c'era scritto che in Italia, nessuno fa quelle cose tanto da sfigati come avere un ufficio stampa, una redazione e uno staff che si occupi solo della promozione dei prodotti che vanno a finire in libreria ( o in edicola): nessuno fa il marketing, per i fumetti.
Ma se fare un libro a fumetti oggi, cioè buttare sul mercato una storia originale,  significa tirare 1000/2000 copie di un lavoro che ci è costato due anni di fatica (quando va bene), per non guadagnarci nulla  e farsi dare solo delle gran pacche sulle spalle quando si va alle fiere, o al massimo durante le presentazioni nelle librerie, dov'è il senso? Dov'é la mia voce?

Ma non se ne esce, perchè per quanti sforzi si possa fare si torna al punto di partenza.
Il ragionamento che faccio io, esula dal potere intrinseco di un opera a fumetti costruita a dovere, o creata da un autore illuminato. Un potere che travalica i circuiti di diffusione e che si impone indipendentemente da tutto, nel caso in cui sia fatto bene e piaccia.
Penso ad alcune opere, nate come autoproduzioni e arrivate con la pazienza ed il lavoro, a coprire posizioni di tutto rispetto anche sul circuito del mercato tradizionale. Quei casi isolati, che valgono come ispirazione per orde di nuovi autori che vogliono tentare la replica.
E quindi sempre lì si torna. Perchè ci si torna sempre.
Fai un progetto personale essendo te stesso, ma affrontando dei gran sacrifici senza sapere se ne verrai mai ripagato.
Fai un lavoro commerciale, facendo dei gran compromessi e rischiando di dimenticare chi sei, ma riuscendo a vivere del tuo lavoro.

Scrivo questo in un momento molto particolare, un altro bivio, lo stesso delle righe precedenti.
Un momento in cui da una parte mi si prospetta la concreta possibilità di entrare a far parte dello staff di  una serie di successo all'estero, ma che mi impegnerebbe per molto molto tempo senza lasciare lo spazio  per un granchè d'altro. Dall'altra avviare  un grosso progetto personale, cercando di farsi meno male possibile, ora che ho più esperienza.

Vedremo.

Grazie per aver letto fin qui.









domenica, settembre 30, 2012

Apocalittica riflessione sul lavoro.

Quest'estate si era al mare. Si era comodi (rilassati per quanto possibile) e la sera si stava fuori a chiacchierare e, fornitura frigo permettendo, a scolare bibite di vario genere.
Ero in Veneto (Weneto, come dice Bacilieri), la regione dove sono nato, con la famiglia di uno dei miei migliori amici di sempre.
Parlando del più e del meno, una sera il mio amico dice approssimativamente così: " credo che il lavoro sia la più grande truffa della nostra civiltà, ed è assurdo pensare che un'esistenza abbia dignità solo se passata lavorando".
La cosa al momento mi stordì, per il semplice fatto che poteva sembrare una frase messa lì a cazzo ( immagino che anche chi legga fuori dal contesto possa pensare esattamente questo), ma in quel momento era un qualcosa con un peso incredibilmente specifico. E lo ha ancora adesso che mi trovo a ripensarlo.
Io in un certo periodo della mia vita avevo smesso di fare i fumetti: ci avevo rinunciato. Preferivo altre cose e sostanzialmente non credevo che lo avrei mai fatto di mestiere. Avevo fatto parecchi tentativi e ogni volta mi sembrava di allontanarmi di più dai miei obbiettivi. Mi trascinavo all'Accademia ( avevo fatto anche un anno di Lettere) e facevo lavori di qualsiasi tipo per pagarmi le spese e gli affitti vari. Avevo deciso di smettere dopo una doppietta che mi ero propinato nel tentativo di essere pubblicato.
Una cosa era con uno sceneggiatore non professionista di Padova, che mi fece fare una storia breve da proporre all'Eura ( con cui aveva a sua detta agganci sicuri), l'altra erano delle prove per la Marvel Italia, per Conan il Barbaro nello specifico, perchè un editor era venuto a fare una conferenza all'Accademia e mi disse che forse c'erano degli spiragli per produrre qualcosa direttamente nel nostro paese.
Erano queste cose qua:


Dall'Eura ci fu una risposta quasi kafkiana: mi dissero che avrebbero portato il plico nei loro archivi, e se mai ci fosse stato spazio, l'avrebbero pubblicata. Solo in quel caso mi avrebbero contattato per pagarmi. Io mi immaginai il magazzino dei "Predatori dell'arca perduta" e un facchino che depositava il mio plico accanto ad un altra storia a fumetti fatta da un esordiente che voleva pubblicare, nel 1952.
L'editor della Marvel Italia invece mi ricevette a casa sua, a Bologna in una situazione di trasloco. Mi parlò tutto il pomeriggio del più e del meno, spostando pacchi e caricandoli in macchina, come se fossi arrivato a Bologna appositamente per farmi i cazzi suoi. Ad un certo punto, dopo tutta quella confidenza raccolta in casa,  gli dissi: "si vabbè, io sarei venuto qua anche per sapere se posso disegnare per voi". A quel punto tutta la giovialità dell'incontro si trasformò. Divenne qualcosa di solenne, ma anche di tragico; Sentii come un Requiem rieccheggiare nella sala. L'editor mi chiese con una voce sibilante: "tu lo sai, cosa significa fare questo lavoro?" io, candidamente risposi " in realtà no, visto che non me l'hanno mai fatto fare, però mi piacerebbe iniziare" l'editor si avvolse in un mantello ipotetico, come se lui solo custodisse il segreto utile per varcare la soglia del professionismo: "Non basta volerlo fare, non basta!"
Cioè, mi aveva convocato per dirmi questo.
Dopo essere tornato a Vicenza, mi dissi che ne avevo abbastanza, e che sicuramente avrei fatto qualcos'altro nella vita. L'ambiente ai miei occhi, era pieno di sballati che ti facevano fare i salti mortali per non ottenere nulla, e anche se ci riuscivi a lavorare, sarebbe stato impossibile viverci.
Per dire che questi ultimi due episodi erano stati solo l'apice di una serie di avventure grottesche accadutemi nei cinque-sei anni precedenti.
Come dimenticare di quando mi dissero, che se proprio volevo guadagnare qualcosa coi fumetti, mi dovevo buttare sul porno? Dopo averci messo anni ad accumulare un portfolio di storie di avventura, di fantascienza, o heroic-fantasy, con ambientazioni, armi, astronavi, supertizi di ogni genere (con devo dire anche un discreto retrogusto moralista e bacchettone), mi dissero che per guadagnare dovevo immaginare e disegnare storie con delle zoccole che venivano sfondate da qualcuno senza alcuna ragione plausibile. Ci provai anche a  fare delle tavole, ma non le ho mai spedite, complice la mia timidezza nel disegnare organi sessuali in attività.
Questo preambolo per dire che mi misi a fare il magazziniere. Non lo facevo sempre, sia chiaro che dovevo pure studiare e fare esami, però quella era la mia principale fonte di guadagno. Era un lavoro fisico, a stretto contatto con i camionisti, con pacchi e bancali di qualunque forma e dimensione. Quando non svuotavo e riempivo camion, andavo nelle fiere a smontare gli stand degli orafi, e quando non facevo nemmeno quello, mi mandavano a fare l'operaio dove serviva. Ho fatto il falegname perlopiù.
Un altro lavoro era il facchino della lavanderia. Andavo tutto il giorno in giro per gli alberghi e i ristoranti dei colli berici a raccattare biancheria zozza e restituendo quella pulita.
Poi smisi con la cooperativa.
Arrivai a fare il cameriere in un pub dove rimasi per circa un paio di annetti.
Poi decisi di lavorare per un fioraio famoso di Vicenza. Un fioraio poeta che usava una villa di cinquecento metri quadrati come deposito di cose inutilizzate. Anche lì facevo le consegne con il furgone.
Come coronamento di questo caleidoscopio di impieghi umani, alla fine sono finito in uno studio di pubblicità a fare prima l'amministrativo e poi il grafico. Facevo queste cose qua:









Quello fu l'ultimo lavoro normale che feci, e finì più o meno come tutte le altre volte: venni licenziato.
Questo perchè avevo un problema. Non riuscivo mai a considerare nessuno degli impieghi che avevo avuto negli ultimi anni come qualcosa che mi appartenesse o che mi rappresentasse, ma solo come un mezzo per ottenere del denaro e pagarmi da vivere. Non ci potevo fare nulla, io mi immaginavo solo come disegnatore e probabilmente questa era una cosa che si sentiva. A questo si aggiungeva una constatazione maligna che mi percuoteva feroce il cervello: le persone con cui lavoravo, i datori di lavoro mi sembravano tutti uguali. Non vedevo alcuna differenza tra le persone del magazzino dove scaricavo sacchi di juta pieni di caffè e quelli del pub, del fiorista o dello studio.  Tutti gli ambienti di lavoro erano equivalenti  e questa cosa mi faceva uscire di testa. Tutti quanti erano intenzionati ad utilizzare la tua manodopera spendendo la minor quantità possibile di denaro. Tutti ad abbassare i costi, invece di alzare la qualità, come unico modo per essere competitivi. Tutti che ci tenevano a ricordarti in ogni momento che eri sostituibile e mai indispensabile.
Tutti quanti covavano astio, dolore e rassegnazione profondi. Mascherati da benessere. Mascherati da rispettabilità. Il fiorista poeta aveva due o tre crolli da stress ogni anno.
Io stavo in un limbo, disegnavo e avevo ottenuti i primi lavoretti pagati, ma non  riuscivo ad immaginare come fare per mettere insieme uno stipendio ogni mese. Ma tutto sommato non me ne fregava un granchè e ci provai. Quello era il mio posto, l'unica cosa che mi somigliasse e solo facendone altri l'avevo capito. Questo succedeva nel 2001.
Allora perchè la frase del mio grande amico, mi ha colpito così tanto? Il più delle volte, lui era accanto a me, in ciascuno degli impieghi che ho avuto, oltre che in Accademia e in altri luoghi importanti della mia vita. Mi ha colpito perchè mi ha fatto rendere conto che anche il mio è un lavoro, non esente dalle magagne che riscontravo al pub, in magazzino eccetera. Con l'unica differenza che a volte, io me ne dimentico.
Per certi aspetti potrei anche copincollare le cose che ho detto due capoversi sopra, rendendomi conto che appartengono anche al mio ambiente. Il fatto che sia un lavoro, ci mostra la netta cesura tra passione e sopravvivenza, tra pulsione naturale e pragmatismo. E ci fa vedere quanto siano incompatibili i due ambiti.
Se avessi seguito il mio impulso naturale, fottendomene delle questioni pratiche (come per esempio la sopravvivenza) probabilmente avrei dieci anni in più di esperienza come disegnatore sulle spalle, e dieci anni in meno di sfiga nella testa.
Ma la "grande truffa del lavoro" è quella non farci vedere chi siamo, da dove veniamo, ponendoci quotidianamente davanti alla frontiera della necessità.

Di farci immaginare in qualunque contesto, anche il più lontano in assoluto dalle nostre aspettative, e illuderci che sia una cosa normale, perchè l'alternativa è l'essere reietti.
Quando andavo a scuola, ho conosciuto persone infinitamente più brave di me, che hanno rinunciato di fronte a questa frontiera ed è agghiacciante pensarci. 
Io ho attraversato questo confine, trovandomi nel burrascoso"oceano della necessità" con l'unica differenza che ho fatto in modo di costruirmi strumenti per navigarlo senza sentire il peso della frustrazione, della fatica ed è questa la mia unica fortuna. 
Tutto questo per dire cosa? Che cercherò di preparare un altro post, con una riflessione sulle differenze tra il fumetto popolare e quello autoriale...