domenica, settembre 30, 2012

Apocalittica riflessione sul lavoro.

Quest'estate si era al mare. Si era comodi (rilassati per quanto possibile) e la sera si stava fuori a chiacchierare e, fornitura frigo permettendo, a scolare bibite di vario genere.
Ero in Veneto (Weneto, come dice Bacilieri), la regione dove sono nato, con la famiglia di uno dei miei migliori amici di sempre.
Parlando del più e del meno, una sera il mio amico dice approssimativamente così: " credo che il lavoro sia la più grande truffa della nostra civiltà, ed è assurdo pensare che un'esistenza abbia dignità solo se passata lavorando".
La cosa al momento mi stordì, per il semplice fatto che poteva sembrare una frase messa lì a cazzo ( immagino che anche chi legga fuori dal contesto possa pensare esattamente questo), ma in quel momento era un qualcosa con un peso incredibilmente specifico. E lo ha ancora adesso che mi trovo a ripensarlo.
Io in un certo periodo della mia vita avevo smesso di fare i fumetti: ci avevo rinunciato. Preferivo altre cose e sostanzialmente non credevo che lo avrei mai fatto di mestiere. Avevo fatto parecchi tentativi e ogni volta mi sembrava di allontanarmi di più dai miei obbiettivi. Mi trascinavo all'Accademia ( avevo fatto anche un anno di Lettere) e facevo lavori di qualsiasi tipo per pagarmi le spese e gli affitti vari. Avevo deciso di smettere dopo una doppietta che mi ero propinato nel tentativo di essere pubblicato.
Una cosa era con uno sceneggiatore non professionista di Padova, che mi fece fare una storia breve da proporre all'Eura ( con cui aveva a sua detta agganci sicuri), l'altra erano delle prove per la Marvel Italia, per Conan il Barbaro nello specifico, perchè un editor era venuto a fare una conferenza all'Accademia e mi disse che forse c'erano degli spiragli per produrre qualcosa direttamente nel nostro paese.
Erano queste cose qua:


Dall'Eura ci fu una risposta quasi kafkiana: mi dissero che avrebbero portato il plico nei loro archivi, e se mai ci fosse stato spazio, l'avrebbero pubblicata. Solo in quel caso mi avrebbero contattato per pagarmi. Io mi immaginai il magazzino dei "Predatori dell'arca perduta" e un facchino che depositava il mio plico accanto ad un altra storia a fumetti fatta da un esordiente che voleva pubblicare, nel 1952.
L'editor della Marvel Italia invece mi ricevette a casa sua, a Bologna in una situazione di trasloco. Mi parlò tutto il pomeriggio del più e del meno, spostando pacchi e caricandoli in macchina, come se fossi arrivato a Bologna appositamente per farmi i cazzi suoi. Ad un certo punto, dopo tutta quella confidenza raccolta in casa,  gli dissi: "si vabbè, io sarei venuto qua anche per sapere se posso disegnare per voi". A quel punto tutta la giovialità dell'incontro si trasformò. Divenne qualcosa di solenne, ma anche di tragico; Sentii come un Requiem rieccheggiare nella sala. L'editor mi chiese con una voce sibilante: "tu lo sai, cosa significa fare questo lavoro?" io, candidamente risposi " in realtà no, visto che non me l'hanno mai fatto fare, però mi piacerebbe iniziare" l'editor si avvolse in un mantello ipotetico, come se lui solo custodisse il segreto utile per varcare la soglia del professionismo: "Non basta volerlo fare, non basta!"
Cioè, mi aveva convocato per dirmi questo.
Dopo essere tornato a Vicenza, mi dissi che ne avevo abbastanza, e che sicuramente avrei fatto qualcos'altro nella vita. L'ambiente ai miei occhi, era pieno di sballati che ti facevano fare i salti mortali per non ottenere nulla, e anche se ci riuscivi a lavorare, sarebbe stato impossibile viverci.
Per dire che questi ultimi due episodi erano stati solo l'apice di una serie di avventure grottesche accadutemi nei cinque-sei anni precedenti.
Come dimenticare di quando mi dissero, che se proprio volevo guadagnare qualcosa coi fumetti, mi dovevo buttare sul porno? Dopo averci messo anni ad accumulare un portfolio di storie di avventura, di fantascienza, o heroic-fantasy, con ambientazioni, armi, astronavi, supertizi di ogni genere (con devo dire anche un discreto retrogusto moralista e bacchettone), mi dissero che per guadagnare dovevo immaginare e disegnare storie con delle zoccole che venivano sfondate da qualcuno senza alcuna ragione plausibile. Ci provai anche a  fare delle tavole, ma non le ho mai spedite, complice la mia timidezza nel disegnare organi sessuali in attività.
Questo preambolo per dire che mi misi a fare il magazziniere. Non lo facevo sempre, sia chiaro che dovevo pure studiare e fare esami, però quella era la mia principale fonte di guadagno. Era un lavoro fisico, a stretto contatto con i camionisti, con pacchi e bancali di qualunque forma e dimensione. Quando non svuotavo e riempivo camion, andavo nelle fiere a smontare gli stand degli orafi, e quando non facevo nemmeno quello, mi mandavano a fare l'operaio dove serviva. Ho fatto il falegname perlopiù.
Un altro lavoro era il facchino della lavanderia. Andavo tutto il giorno in giro per gli alberghi e i ristoranti dei colli berici a raccattare biancheria zozza e restituendo quella pulita.
Poi smisi con la cooperativa.
Arrivai a fare il cameriere in un pub dove rimasi per circa un paio di annetti.
Poi decisi di lavorare per un fioraio famoso di Vicenza. Un fioraio poeta che usava una villa di cinquecento metri quadrati come deposito di cose inutilizzate. Anche lì facevo le consegne con il furgone.
Come coronamento di questo caleidoscopio di impieghi umani, alla fine sono finito in uno studio di pubblicità a fare prima l'amministrativo e poi il grafico. Facevo queste cose qua:









Quello fu l'ultimo lavoro normale che feci, e finì più o meno come tutte le altre volte: venni licenziato.
Questo perchè avevo un problema. Non riuscivo mai a considerare nessuno degli impieghi che avevo avuto negli ultimi anni come qualcosa che mi appartenesse o che mi rappresentasse, ma solo come un mezzo per ottenere del denaro e pagarmi da vivere. Non ci potevo fare nulla, io mi immaginavo solo come disegnatore e probabilmente questa era una cosa che si sentiva. A questo si aggiungeva una constatazione maligna che mi percuoteva feroce il cervello: le persone con cui lavoravo, i datori di lavoro mi sembravano tutti uguali. Non vedevo alcuna differenza tra le persone del magazzino dove scaricavo sacchi di juta pieni di caffè e quelli del pub, del fiorista o dello studio.  Tutti gli ambienti di lavoro erano equivalenti  e questa cosa mi faceva uscire di testa. Tutti quanti erano intenzionati ad utilizzare la tua manodopera spendendo la minor quantità possibile di denaro. Tutti ad abbassare i costi, invece di alzare la qualità, come unico modo per essere competitivi. Tutti che ci tenevano a ricordarti in ogni momento che eri sostituibile e mai indispensabile.
Tutti quanti covavano astio, dolore e rassegnazione profondi. Mascherati da benessere. Mascherati da rispettabilità. Il fiorista poeta aveva due o tre crolli da stress ogni anno.
Io stavo in un limbo, disegnavo e avevo ottenuti i primi lavoretti pagati, ma non  riuscivo ad immaginare come fare per mettere insieme uno stipendio ogni mese. Ma tutto sommato non me ne fregava un granchè e ci provai. Quello era il mio posto, l'unica cosa che mi somigliasse e solo facendone altri l'avevo capito. Questo succedeva nel 2001.
Allora perchè la frase del mio grande amico, mi ha colpito così tanto? Il più delle volte, lui era accanto a me, in ciascuno degli impieghi che ho avuto, oltre che in Accademia e in altri luoghi importanti della mia vita. Mi ha colpito perchè mi ha fatto rendere conto che anche il mio è un lavoro, non esente dalle magagne che riscontravo al pub, in magazzino eccetera. Con l'unica differenza che a volte, io me ne dimentico.
Per certi aspetti potrei anche copincollare le cose che ho detto due capoversi sopra, rendendomi conto che appartengono anche al mio ambiente. Il fatto che sia un lavoro, ci mostra la netta cesura tra passione e sopravvivenza, tra pulsione naturale e pragmatismo. E ci fa vedere quanto siano incompatibili i due ambiti.
Se avessi seguito il mio impulso naturale, fottendomene delle questioni pratiche (come per esempio la sopravvivenza) probabilmente avrei dieci anni in più di esperienza come disegnatore sulle spalle, e dieci anni in meno di sfiga nella testa.
Ma la "grande truffa del lavoro" è quella non farci vedere chi siamo, da dove veniamo, ponendoci quotidianamente davanti alla frontiera della necessità.

Di farci immaginare in qualunque contesto, anche il più lontano in assoluto dalle nostre aspettative, e illuderci che sia una cosa normale, perchè l'alternativa è l'essere reietti.
Quando andavo a scuola, ho conosciuto persone infinitamente più brave di me, che hanno rinunciato di fronte a questa frontiera ed è agghiacciante pensarci. 
Io ho attraversato questo confine, trovandomi nel burrascoso"oceano della necessità" con l'unica differenza che ho fatto in modo di costruirmi strumenti per navigarlo senza sentire il peso della frustrazione, della fatica ed è questa la mia unica fortuna. 
Tutto questo per dire cosa? Che cercherò di preparare un altro post, con una riflessione sulle differenze tra il fumetto popolare e quello autoriale...





sabato, settembre 29, 2012