sabato, febbraio 01, 2014

la macina e il disegnatore.

"Sono qui" disse.

Io ero accucciato dietro un masso scuro, dove mi pareva di aver visto sgattaiolare delle cimici succuse. Avevo fame e forse quello era cibo. L'arancione e il verde, sono i colori di qualcosa di commestibile, pensai.

"Sono qui" disse di nuovo.

Le cimici, hanno un sapore simile a quello del limone, credetti di sapere. Con le unghie scavavo sotto il masso, e per un attimo ebbi la certezza di averne toccata una.  I limoni cadono nei giardini a Sorrento e sono grossi come cedri, dei cedri succosi  e grossi, come le cimici.

"Allora, mi ascolti per un momento?" chiese

Qualcosa di simile ad una radice mi si infilò tra le dita, solleticandole come un piccolo serpente legnoso. Le radici non si muovono da sole, pensai. Le radici stanno ferme o almeno non si agitano di vita propria. Le radici hanno il sapore degli anni, dei secoli, ma in quel momento già avevano già smesso di fare il solletico, e stringevano.

"tu mi hai invocato e ora sono qui" disse.

Puntai i piedi sulla roccia scura per cercare di divincolarmi in qualche modo. Entrambe le braccia erano bloccate e sentivo un liquido caldo uscire da sotto le unghie. - Poco fa ho bestemmiato - pensai, l'ho fatto come se non lo facessi da anni, come si fa quando si cade sul pendio di ferro delle montagne russe col vento sulla faccia, come quando ci si rende conto di aver perso tutto mentre si era occupati a fare dell'altro. Vidi allora che il masso scuro era una macina, una grossa macina per il grano. Che attorno a me c'erano le macerie di una casa, le costole del tetto, i mattoni del solaio caduti a terra come tanti denti marci. Le radici da sotto la macina mi avevano già sfilato parte  della pelle del polso sinistro e cominciavano a risalire, golose forse delle ossa del gomito, così irregolari e incomprensibili, per questo forse più attraenti. 



"Cosa volevi dirmi?" chiese.

Io risposi che volevo risparmiasse il mio braccio destro, quello mi serviva, mi serviva parecchio anche se non ricordavo a cosa. A pensarci bene, anche le gambe se le sarebbe potuto prendere, se era a lui che dovevo dirlo, se era lui quello che mi tratteneva sotto la macina. Ma non sapevo niente, sapevo solo che mi serviva il braccio.

"A cosa serve un corpo a cui è rimasto solo un braccio?"chiese di nuovo

Pensai di rispondere che servisse a qualcosa di importante, di dare la risposta giusta ammesso che avrebbe avuto un senso. Che se avessi risposto che mi serviva per fare del bene, agli altri, forse mi avrebbe lasciato andare  e forse mi avrebbe fatto mangiare quelle cimici grasse che frinivano da settimane nei miei pensieri. Ma non mi veniva in mente nulla. Forse il braccio mi serviva per bere, per sollevare spesso dei bicchieri colmi di vino. Ma pensai che quello si poteva fare anche senza, magari organizzandosi con le cannucce. Nel granaio c'erano delle bottiglie verdi, vuote. E una damigiana piena di biglie che anche quella non era utile a nessuno, forse come me. 

"Un corpo è una dimora difficile da abitare, una distrazione può farla crollare"secco disse.

E' una dimora, giusto. Fu allora che vidi un tavolo, pensai che non era apparecchiato e che forse non serviva per mangiarci. Era un tavolo storto, dove chiunque ci avesse appoggiato forchetta e coltelli, li avrebbe visti scivolare a terra, incapaci di sottrarsi alla gravità. Un tavolo inutile su cui non avrei potuto sgranocchiare i miei insetti preferiti educatamente. Dove non avrei potuto mangiare con l'unico braccio rimasto.

"Cerca di ricordare, che la vita è breve" ironizzò.

Dissi che facevo il disegnatore, che il braccio mi serviva per disegnare e solo allora le radici lasciarono la presa. Mi allontanai dalla macina e cercai di rimanere in piedi. Adesso era tutto lì quello che rimaneva del mio pasto, io che ero divenuto pasto a mia volta. Avevo detto che facevo il disegnatore, ma di certo non lo ero. Dovevo essere un prete, per essere così ben predisposto alle conversazioni improbabili. Ma in quel caso non si spiegava la necessità delle braccia, o meglio del braccio. Un giocatore di scacchi. Un operaio specializzato. Ero certo di non essere un musicista perché la musica era una cosa per cui è necessario essere vicini alle stelle, io invece stavo accanto alla macina, contenuta nello stomaco di un cadavere edile.




"Ora mi devi parlare di quello che ti ha portato a disegnare. Sono qui"

La domanda alla fine è dunque questa qui. Delle cimici non se ne parlava più (forse non se ne era mai parlato) e quindi cominciai a raccogliere le pietre, che una volta, prima di diventare le tessere scomposte di un mosaico, dovevano permettere a qualcuno di sentirsi al sicuro, in un luogo che gli appartenesse. Le spinsi vicino al tavolo, convinto che l'inclinazione del piano andasse corretta. Dissi che avevo mentito, che ero un disegnatore e che avevo bestemmiato la mia esistenza così straordinariamente lontana da quella delle persone civili. Vidi che sul tavolo c'erano fogli neri, su cui qualcuno aveva sputato, forse io. Avrei voluto essere  una bocca in quel momento per avere anche un debole ricordo del sapore della saliva, della vita.



"qual'è la ragione, dunque?"

Vidi gli anni passati per un momento. Mi resi conto che se esisteva un motivo per cui disegnavo era per vendicarmi: l'unica vendetta che mi potevo permettere da seduto dietro un tavolo storto. Al riparo, in una casa con delle biglie nascoste in una damigiana.
Avevate visto tutti quello che sapevo fare nascosto lì dietro, avevate riso, pianto o applaudito, o insultato nel più completo silenzio, nella massima distanza possibile. La distanza era quella giusta, lontani da tutto ciò che mi aveva costituito, che mi aveva preceduto e che aveva fatto sì che mi trovassi così lontano da voi, pur essendo lì davanti ai vostri occhi.
La vendetta, per aver sopportato  di osservare le vostre vite, per essere obbligato a confrontarle con la mia e farne un involto osceno su di una bilancia, come unico modo per restituirvela. Una bilancia che pendeva sempre dalla mia parte come il piano inclinato di un tavolo storto.
Osservare, giudicare, migliorare e restituire. 
Come la macina migliora il grano per creare la farina. 

"Stai mentendo ancora"

Non avrei dovuto essere lì. Sto mentendo è vero. Come sempre.
- Nel secolo dei bugiardi, un bugiardo in più o in meno, non fa differenza -  mi sono sempre detto. Qualcuno me l'aveva insegnato il disegno, tanto tempo fa, senza una ragione e questa tra le tante cose era diventata la più importante. Tra la tante cose che erano trascorse, quella era rimasta lì. Levigata dalle correnti silenziose degli anni fino a diventare una pietra resistente più di tutte le altre. 
Come nella mia Kaaba personale, la mia pietra nera, la mia macina. 
E ogni volta lo dimentico e lo ricordo ancora, allo stesso modo in cui cado e mi risollevo.

"ora me ne vado, mi stai annoiando. Tutte le volte mi annoio a parlare con te" disse. "ma è una  noia buona, familiare che mi farà essere qui anche la prossima volta" concluse.

Aveva ragione. La noia, la reiterazione, forse nella nostra conversazione, nel nostro rapporto, avevano un valore assoluto, essenziale. Questa era la risposta.
Una noia buona, che non scava dentro corrodendo, ma  che acquieta.
Io che ripetevo gli stessi gesti da sempre, la casa che cadeva come a ricordarmi che era lì, come se volesse simulare una vita, dotata di movimento.

E fu così che lasciò la casa con me che non mi ero sfamato, e tutti  quei cocci da sistemare. 
Una casa da ricostruire. 
L'avevo demolita io quella casa, o forse c'era stata la guerra, non lo so.
Forse ero un soldato, o forse un vigliacco, un disertore in cerca di cibo e riparo. 
Uno dei tanti che cerca conforto in cose banali, abituali, ma che alla fine quel conforto non lo trova mai.
Una casa da ricostruire assieme alle abitudini destinate ad abitarla.


"La macina può essere utile anche per fare dei mattoni" pensai.